Lanciata il 20 agosto 1977 e costruita con la tecnologia di mezzo secolo fa, funziona ancora: registra i dati su un nastro magnetico e li trasmette a terra con una potenza pari a quella di una lampadina da frigorifero. Il racconto dell’astrofisica Patrizia Caraveo
L’esplorazione del sistema solare, e di tutto l’Universo, che facciamo utilizzando sonde e telescopi spaziali dipende criticamente dalla capacità di interagire continuamente con i nostri esploratori robotici. Perdere i contatti con una sonda significa perdere tutto il suo potenziale di scoperta. Per questo, a fine luglio, aveva fatto notizia il fatto che la NASA avesse perso i contatti con la sua sonda veterana Voyager 2, lanciata il 20 agosto 1977 seguita, il 5 settembre dello stesso anno, dalla gemella Voyager 1. Le due sonde hanno sfruttato un raro allineamento planetario (che si verifica ogni 176 anni) per fare il Grand Tour del sistema solare esterno, visitando Giove, Saturno, Urano e Nettuno, ed ora si stanno spingendo sempre più lontano, veri e propri avamposti dell’umanità nello spazio profondo.
Entrambe hanno oltrepassato il confine della regione dominata dall’energia emessa dal Sole e, pur essendo ancora all’interno del sistema solare, sono in una zona che assomiglia allo spazio interstellare. Proprio per questo i dati raccolti dalle due anziane sonde sono unici e quindi estremamente importanti. Per farle lavorare il più a lungo possibile, tutti gli strumenti non necessari sono stati spenti oltre vent’anni fa, dopo che Voyager 1, su suggerimento di Carl Sagan, aveva scattato la foto della Terra che appariva come un pallido puntino ble, pale blue dot. Tuttavia operare le due Voyager non è semplice. Le sonde sono state costruite con tecnologia di mezzo secolo fa, registrano i dati su un nastro magnetico a 8 piste che viene usato un pezzo alla volta e viene riavvolto ogni 6 mesi, per non usurarlo troppo. I dati vengono trasmessi a terra con tutta la potenza prodotta dal generatore a radioisotopi di bordo, che nel corso degli anni si è ridotta ed ora si aggira sui 23 Watt, l’equivalente della lampadina del vostro frigorifero. Anche il bit-rate è vintage: 160 bit/secondo.
E’ chiaro che erano stati fatti prodigi di valore per comprimere le informazioni in una velocità di trasmissione così limitata. Oltre a inviare dati, le sonde devono anche ricevere dei comandi. Per restare in contatto con tutte le sonde in giro per il sistema solare, la NASA utilizza il Deep Space Network che conta su tre centri di ascolto posizionati strategicamente in modo di assicurare la copertura continua del cielo. Le antenne del DSN sono a Goldstone (in California), nelle vicinanze di Madrid (in Spagna) e a Camberra (in Australia). Ogni centro DSN ha antenne di diverse dimensioni: le più grandi sono dedicate all’ascolto degli oggetti più lontani, i cui segnali sono indeboliti dalla distanza, le altre gestiscono le sonde più vicine. Le sonde Voyager sono le più lontane e quindi hanno diritto alle antenne da 70 metri di diametro, che ricevono i dati e, se necessario, inviano comandi alle sonde. Il 21 luglio, nel corso della sessione dedicata a Voyager 2, è stato inviato un comando errato che ha causato il disallineamento dell’antenna della sonda che non è più stata puntata con precisione verso terra. La NASA sapeva benissimo dove si trovava la sonda, che non era affatto persa, ma non poteva ricevere dati. Una situazione sgradevole ma non drammatica, il computer di bordo ha un sistema di reset automatico che entra in funzione ogni tre mesi ed il prossimo era previsto il 15 ottobre. Per male che andasse, a metà ottobre i contatti sarebbero stati ristabiliti. Tuttavia alla NASA non piaceva l’idea di non avere contatti per così lungo tempo e hanno provato a inviare un segnale molto più forte del solito dalla grande antenna di 70 metri di diametro della stazione di Camberra.
La speranza era che anche se un po’ disallineata, l’antenna della sonda captasse l’ordine di allinearsi e rispondesse. Il tentativo è stato fatto il 3 agosto, ma ci sono volute 37 ore per capire se l’urlaccio cosmico aveva sortito l’effetto desiderato. Il segnale ha impiegato 18,5 ore a raggiungere la sonda, che è a 20 miliardi di km da noi, ed altrettanto avrebbe impiegato l’eventuale risposta che è effettivamente arrivata con sollievo del contro di controllo. La sonda funziona perfettamente e ha ripreso l’invio dei dati mentre si prepara e festeggiare, il 20 agosto, il 46esimo anniversario del lancio. Compleanno che la NASA spera sia seguito da altri dal momento che la sonda è gestita in modo oculato per sfruttare al meglio la sempre minor quantità di energia prodotta dal generatore di bordo, che sfrutta il decadimento del plutonio, un processo che si affievolisce nel tempo perché il materiale radioattivo si riduce. Le previsioni dicono che c’è speranza di arrivare al 2030, poi la sonda continuerà il suo viaggio ma non avrà più energia per chiamare casa.