Dalle carte le testimonianze dei pony express sfruttati: «La mia paga era sempre di 3 euro a consegna indipendentemente dal giorno e dall’ora»
Che non fossero trattati bene lo sapevano tutti. Che fossero costretti a lavorare in condizioni precarie, al limite della pericolosità, senza diritti, al guinzaglio delle app che ne tracciavano tempi e spostamenti, era ben noto. Tant’è che uno dei primi impegni che Luigi Di Maio assunse appena si insediò al dicastero del Lavoro sarebbe stato dare loro maggiori tutele. Erano i tempi del Conte I. Ormai siamo in pieno Conte II, Di Maio non è più al Lavoro ma agli Esteri e oggi si scopre persino che i rider di Uber Italy erano trattati come schiavi. Non lo dicono i sindacati, lo scrivono i giudici di Milano. Uber, attraverso società di intermediazione di manodopera, avrebbe sfruttato migranti «provenienti» da contesti di guerra, «richiedenti asilo» e persone che dimoravano in «centri di accoglienza temporanei» e in «stato di bisogno», insomma, «persone disposte a tutto per sopravvivere».
Tre euro a consegna
Non ci sarebbero insomma differenze di trattamento tra i braccianti agricoli di Rosarno e i rider che pedalavano a Milano, a qualunque ora del giorno e della notte, con qualunque condizione meteo, evitando tram e bus. E proprio con il lock down e l’impennata di richiesta delle consegne a domicilio le condizioni dei corrieri di Uber Italy si sarebbero inasprite, non contemplando ovviamente per i lavoratori la possibilità di chiedere e ottenere dispositivi anti-Covid pure considerati essenziali come le mascherine. Il «regime di sopraffazione retributivo» ai danni dei rider del servizio Uber Eats, «reclutati in una situazione di emarginazione sociale», scrivono i giudici nel decreto di commissariamento, si è aggravato con «l’emergenza sanitaria a seguito della quale l’utilizzo» dei fattorini «è progressivamente aumentato a causa della richiesta determinata dai restringimenti alla libertà di circolazione», tanto che «potrebbe aver provocato anche dei reclutamenti a valanga e non controllati».
«La mia paga era sempre di 3 euro a consegna indipendentemente dal giorno e dall’ora». È una delle testimonianze che emergono dal decreto per giustificare l’intervento del Tribunale ancora prima della sentenza. Insomma, la situazione era così grave e palese che i giudici sono intervenuti con la richiesta di commissariare Uber Italy perché da qui alla sentenza i lavoratori avrebbero subito altre ingiustizie, altri danni. La Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano ha così disposto l’amministrazione giudiziaria della filiale italiana del gruppo americano, per lo sfruttamento dei rider addetti alle consegne di cibo per il servizio Uber Eats.
Uber Italy: condanniamo il caporalato
«Uber Eats ha messo la propria piattaforma a disposizione di utenti, ristoranti e corrieri negli ultimi 4 anni in Italia nel pieno rispetto di tutte le normative locali. Condanniamo ogni forma di caporalato attraverso i nostri servizi in Italia». È la replica di Uber Italy. «Inoltre – prosegue la nota – partecipiamo attivamente al dibattito sulle regolamentazioni che crediamo potranno dare al settore del food delivery la sicurezza legale necessaria per prosperare in Italia. Continueremo a lavorare per essere un vero partner di lungo termine in Italia». Belle parole alle quali finora i magistrati milanesi sembrano credere molto poco. Assieme alla posizione di Uber Italy ci sarà da chiarire il ruolo e le condotte delle numerose società di intermediazione che lavoravano per il gruppo, reclutando personale che, sostengono i giudici, veniva poi trattato come schiavi.
Leggi anche: Chi sono i rider a Milano? L’identikit nella ricerca dell’Università degli Studi
«Datori di lavoro senza scrupoli
La società che lavorava per conto di Uber Italy avrebbe attuato la strategia di procurare lavoratori provenienti da «zone conflittuali del pianeta (Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Gambia, Guinea, Pakistan, Bangladesh e altri) e la cui vulnerabilità è segnata da anni di guerre e povertà alimentare», si legge nel decreto. Una strategia in quanto il «forte isolamento sociale in cui vivono questi lavoratori» offre «l’opportunità di reperire lavoro a bassissimo costo, poiché si tratta di persone disposte a tutto per sopravvivere, sfruttate e discriminate da datori di lavoro senza scrupoli».