Nella seconda puntata dedicata alle space startup due interviste a founder che si occupano del settore upstream. Daniele Pavarin (T4i) sviluppa engine a Padova, Jonathan Polotto (Involve Space) lancia piattaforme stratosferiche vicino Como. Il mercato italiano di osservazione della Terra vale 200 milioni di euro
«Oggi l’Italia svolge un ruolo fondamentale nelle missioni e nelle attività spaziali a livello mondiale». Shelli Brunswick, COO della Space Foundation, lo ha scritto in un articolo pubblicato ad aprile 2023. Vale come endorsement, a dimostrazione che il nostro Paese vanta un’eccellenza internazionale spesso trascurata o poco conosciuta. Sono circa 200 le imprese italiane che operano nell’ambito della space economy, e 144 si concentrano sul segmento downstream. Torniamo per un istante su una differenza fondamentale: mentre il segmento upstream si concentra sulla creazione e sul lancio di tecnologie spaziali, quello downstream si focalizza sull’applicazione e sull’uso commerciale di queste tecnologie e dei dati che generano. Dopo la prima puntata del nostro speciale sulle Space Startup in cui abbiamo ospitato l’intervista esclusiva all’astronauta Luca Parmitano, in questo nuovo episodio ci concentriamo sulle startup che volano alto, portando due storie in particolare – quelle di T4i e di Involve Space – utili a capire di più sulle complessità del mercato. Entrambe hanno partecipato a Space it Up, il programma di accelerazione creato da ICE e dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI).
Il settore upstream è il terreno dove operano le grandi realtà come Thales Alenia Space e Avio. Negli ultimi dieci anni però lo spazio si è aperto all’ingresso di nuovi soggetti innovativi, nati grazie al talento tanto di giovani usciti dalle facoltà di ingegneria, quanto di esperti accademici che hanno deciso di provare la via del mercato. Le ex startup oggi divenute grandi imprese sono aziende come D-Orbit, guidata da Luca Rossettini e che di recente ha avviato una raccolta per raccogliere 100 milioni di euro con il Serie C, e Argotec di David Avino, che a San Mauro Torinese ha inaugurato lo SpacePark con un investimento da 25 milioni di euro. Imprese che ispirano moltissimi team che anno dopo anno sperimentano, raccolgono capitali e cercano il confronto con uno dei mercati più complessi. «A volte noto un atteggiamento snob nei confronti dei big, degli attori tradizionali. Il loro modus operandi veniva bollato come old space. Alcuni startupper però sottovalutano l’ambiente spaziale, caratterizzato da situazioni estreme». Daniele Pavarin, 52 anni, è Ceo di T4i Technology for Propulsion and Innovation e insegna Propulsione spaziale all’Università degli Studi di Padova.
Una danza spaziale
Per conoscere la space economy bisogna capirne tutte le componenti. Una di queste riguarda i satelliti, costellazioni tech neanche più così invisibili che ricoprono parte della volta celeste. Accediamo allo spazio (e ai suoi dati) ogni qualvolta chiediamo tramite smartphone una geolocalizzazione per raggiungere una destinazione sconosciuta; quando vogliamo vedere che tempo farà nel week end; quando usiamo le parabole Starlink per connetterci all’internet satellitare di Elon Musk. Ma tutta questa tecnologia orbitante sta immobile? Fondata nel 2014 come spin off dell’Università di Padova, T4i è diventata un’azienda autonoma con circa 50 dipendenti e collaborazioni in corso con grandi realtà come la Agenzia Spaziale Italiana. La sua specialità riguarda i motori che possono far «danzare i satelliti». Qual è la ragione alla base di questi movimenti?
«La mobilità significa anzitutto poter soddisfare obblighi, come quello di lasciare l’orbita pulita quando il satellite ha smesso di operare. Gli spostamenti evitano poi le collisioni ora che lo spazio è particolarmente popolato». Come ci spiega Pavarin una volta non era così. «Un tempo c’erano piattaforme statiche, poco costose, ma mano a mano si è visto che la capacità di offrire servizi e dunque creare un mercato era legata proprio alla possibilità di muoversi». Ad esempio T4i è coinvolta in un progetto con l’ASI per mantenere un satellite a quota bassa con un telescopio che di solito viene impiegato invece a 500 km di quota. «Per star più in basso servono i motori, ma così si ottiene una risoluzione delle immagini più alta». I motori della startup padovana sono di vario tipo: a gas freddo, chimici, elettrici e al plasma, dalla piccola alla grande taglia.
Daniele Pavarin è un imprenditore che non ha abbandonato l’approccio accademico, e forse è anche per questo che continua a insegnare in università . Come fondatore di una realtà innovativa sembra anche avere le idee chiare sul capitale di rischio in un settore che sul rischio è fondato. «In passato abbiamo valutato il Venture Capital, ma poi abbiamo preferito un approccio industriale, magari più lento. Il filone VC preme per una crescita rapida per vendere. Trovo che però questa strada sia rischiosa perché può portare a bolle». Nel corso dell’intervista è anche emerso un altro elemento interessante che aiuta a ragionare su un approccio non a tutti i costi divisivo quando si parla di innovazione nello Spazio. Per intenderci: Musk non ha mandato il vecchio mondo (la NASA) in pensione. La new space economy ha margini di crescita enormi grazie all’innovazione delle startup, ma secondo Pavarin bisogna anche conoscere e rispettare i soggetti storici.
«C’è senz’altro differenza tra mondo tradizionale e startup. In Italia queste ultime si sono diffuse una decina di anni fa, sull’onda dell’entusiasmo. Tante idee nuove, ma in giro ho visto anche parecchia sottovalutazione del rischio e di quel che significa andare nello spazio. Prima di società come SpaceX questo era un mondo conservatore, abituato a seguire processi rigidi. Giusto andare con i piedi di piombo, ma anche le corporate stanno scoprendo i vantaggi di un approccio più snello. Insomma, le due posizioni alla fine convergono».
Gli pseudo-satelliti
Sempre nell’ambito upstream troviamo un’altra startup italiana, che proprio in questo periodo sta negoziando la chiusura del round seed da 2 milioni di euro. Il suo focus è l’osservazione della Terra non dall’orbita, ma da un’altezza ridotta – 20, massimo 30 km di altitudine – per offrire servizi che si rivelerebbero utili soprattutto in situazioni di emergenza. «In questo momento siamo focalizzati su alcuni pilastri: energy, infrastrutture come ferrovie e ponti, monitoraggio dei disastri naturali, difesa e sicurezza nazionale. Mi piacerebbe aprire dal 2024 anche alle telecomunicazioni, utilizzando i nostri palloni per garantire connettività in zone non servite». Jonathan Polotto, 24 anni, è il Ceo e Founder di Involve Space, startup che non utilizza razzi per lanciare le proprie tecnologie, bensì palloni stratosferici in grado di mantenere una sonda in aria per diverse settimane, il tempo sufficiente per capire, ad esempio, l’entità della perdita lungo un metanodotto.
«In gergo, i nostri sono chiamati pseudo-satelliti. Sono piattaforme stratosferiche composte da due elementi: un pallone gonfiato con elio o idrogeno che deve trainare la sonda, e poi il vettore che contiene tutta la bionica di bordo». Il contenuto varia a seconda del risultato che si vuole ottenere. «Se osserviamo un metanodotto ci servirà una telecamera in grado di individuare una perdita, se ci interessa rilevare la qualità dell’aria occorreranno invece sensori».
Involve Space si sta posizionando sul mercato per offrire una alternativa ai satelliti, che già oggi mappano egregiamente un sacco di informazioni stando in orbita. Aggiunge Jonathan Polotto: «Essendo più vicini alla Terra abbiamo una risoluzione più definita e precisa. Rispetto ai satelliti non abbiamo poi un buco temporale di informazioni: un satellite ripassa sullo stesso punto una volta ogni quattro giorni e se ci sono emergenze in corso è un problema. Noi invece siamo forti sul real time monitoring. In caso di emergenza possiamo far partire il pallone in poche ore».
Il pallone e tutta l’ingegneria di bordo sono sviluppati in un’ottica di riutilizzo per abbattere i costi, altro elemento peculiare della space economy del nuovo millennio. Per il 2024 la startup punta a mantenere in volo la sue piattaforme per diversi mesi, soprattutto per traguardare gli obiettivi nel campo delle telecomunicazioni, dove le connessioni richiedono una maggiore continuità e affidabilità nel tempo. «Con i nostri palloni potremmo ripetere il segnale di Starlink (l’internet satellitare della SpaceX di Musk, ndr), oppure creare reti da zero e coprire ad esempio le zone di montagna». Con un team di 10 persone under 30, Involve Space è situata a Como, vicina di casa di D-Orbit, tra le società italiane più innovative nel campo della space economy.
L’eccellenza italiana nel comparto è un dato riconosciuto a livello globale. Restano senz’altro i cronici problemi legati alla burocrazia, che pesano pure sui team più giovani e meno attrezzati. «Sono contrario a chi dice che in Italia non si riescono a fare le cose, e che bisognerebbe andar a Houston – conclude Polotto -. Si può fare invece, anche se forse è più difficile che altrove. Storie come quella di D-Orbit son d’esempio e fanno da sprono».