L’analisi bisettimanale, curata dalla startup innovativa Storyword, sui temi che hanno tenuto banco sulla stampa estera durante i 14 giorni appena trascorsi
In risposta ad un tweet antisemita di Elon Musk, un gran numero di inserzionisti ha sospeso la propria attività pubblicitaria su X. Tra le prime compagnie ad interrompere le inserzioni figurano Apple e IBM che, poco dopo, sono state seguite da Lionsgate, Disney, Comcast/NBCU, Paramount, Warner Bros. Discovery. L’organizzazione no-profit Media Matters for America ha pubblicato un rapporto che evidenzia come Apple, IBM, Amazon e Oracle siano tra le aziende i cui annunci sono stati mostrati accanto a post di estrema destra. Musk, che in passato ha accusato gruppi come l’Anti-Defamation League e il Center for Countering Digital Hate di forzare la mano e allontanare gli inserzionisti dalla piattaforma, ha affermato che X Corp “avvierà una causa termonucleare contro Media Matters” e “tutti coloro che hanno cospirato in questo attacco fraudolento alla nostra azienda”. X ha rischiato un vero e proprio boicottaggio di massa, ma così non è stato. È vero che la mossa antisemita di Musk ha causato, come detto, l’allontanamento di numerosi grossi inserzionisti. Ma quello che non sappiamo è quanti grandi brand continuano a investire in pubblicità nella piattaforma del miliardario texano. La CNN ne ha individuati alcuni, tra cui: NFL, The New York Times, The Washington Post, The Economist, Formula 1 e il produttore di Oreo e Ritz. Contattate una per una, solo NFL ha risposto alla richiesta di commento.
La nuova televisione
Oggi, un numero modesto di account domina la produzione della stragrande maggioranza dei contenuti che popolano i social media. E gli altri? Sono ridotti al ruolo di spettatori, pronti ad applaudire e condividere, mentre le curiosità personali trovano rifugio nelle conversazioni private. Questa tendenza sta trasformando i social in una sorta di televisione moderna, un cambiamento trainato soprattutto dall’ascesa di TikTok. Gli inserzionisti e le stesse piattaforme hanno realizzato che il pubblico continua ad amare l’esperienza televisiva, che avvantaggia coloro che riescono a creare contenuti con standard di produzione elevati. Nel 2023, secondo Emarketer, i brand investiranno circa 6 miliardi di dollari nell’influencer marketing, mentre Goldman Sachs stima che il mercato globale di questa attività sia pari a 250 miliardi di dollari. Piattaforme come YouTube e TikTok hanno da sempre fatto dei video il loro cavallo di battaglia, ma ora anche altri social vogliono sfruttare più che mai questa tipologia di contenuto. È un cambiamento che coinvolge anche i veri programmi televisivi e i film, che si stanno dirigendo sempre più verso le piattaforme social. Secondo Daniel Faltesek, esperto di media, la navigazione nei social è simile allo scorrere tra i canali della televisione, solo che ora il nostro telecomando è sostituito dal pollice che scorre sullo schermo del telefono, passando da TikTok a YouTube Short o alle Instagram Stories. Ma cosa riserva il futuro? Come riporta il Wall Street Journal, alcuni credono in una fusione totale tra le piattaforme social e le reti televisive tradizionali. Altri, invece, ritengono che le prime non inghiottiranno l’intero panorama dell’intrattenimento.
Google ha un grosso debito
Google dovrebbe versare nelle casse degli editori statunitensi più di 10 miliardi di dollari all’anno. È quanto emerso da uno studio pubblicato dall’Institute for Policy Dialogue della Columbia University, che sostiene che il colosso di Mountain View dovrebbe distribuire annualmente alle società di news il 17,5% dei ricavi derivanti dalla ricerca. Mentre Meta, secondo gli stessi calcoli, il 6,6% delle entrate pubblicitarie, poco meno di 2 miliardi di dollari all’anno. I risultati della ricerca sono frutto di un lavoro molto complesso in virtù della mancanza di dati disponibili sul comportamento del pubblico. Motivo per cui Google, racconta Semafor, rifiuta sia la metodologia dello studio sia i suoi risultati. La portavoce della compagnia ha affermato che “meno del 2% di tutte le ricerche sono legate alle notizie” e che Google apporta “un enorme valore ai siti di notizie generando più di 24 miliardi di visualizzazioni ogni mese sui loro portali – senza alcun costo per quest’ultimi – che possono monetizzare”. La battaglia tra società di news e big tech va avanti ormai da diversi anni. Gli scontri più noti si sono verificati nel 2021 in Australia con l’Australian News Media Bargaining Code, che ha garantito milioni di dollari al business dell’informazione, e recentemente in Canada con l’Online News Act che impone alle piattaforme di pagare le testate giornalistiche per i loro contenuti. In risposta a questi provvedimenti legislativi, Google ha iniziato a firmare accordi di pagamento direttamente con gli editori di tutto il mondo. Accordi i cui importi e metodologia con cui vengono calcolati non sono pubblici, generando una criticità per le testate minori a cui di conseguenza mancano le basi per trattare con le big tech. E ciò deriva anche dal fatto che, a differenza degli attori di Hollywood, non esiste un grande sindacato dei giornalisti.
Chi è più influente?
Il ruolo dei media è fondamentale nel modellare gli atteggiamenti delle persone nei confronti del cambiamento climatico. Questa la conclusione dell’ultimo report del Reuters Institute sulle audience del climate change, che confronta il 2022, data alla quale risale il primo studio di questo tipo, con il 2023, candidato a essere non solo l’anno più caldo mai registrato ma anche quello che ci ha dato l’assaggio più amaro degli impatti che il cambiamento climatico avrà sul Pianeta nei prossimi decenni e secoli. Otto i Paesi presi in considerazione, collocati sia nel Nord sia nel Sud del mondo – Brasile, Francia, Germania, Giappone, India, Pakistan, Regno Unito, Stati Uniti –, con l’obiettivo di capire se ci sia stato, in un anno, un cambiamento nel consumo delle notizie sul cambiamento climatico. A livello generale, il campione intervistato ha dimostrato un alto livello di interesse sull’argomento, anche per quanto riguarda gli sviluppi più recenti, ma non emerge una preferenza per una o più soluzioni di giornalismo in particolare. Scendendo nei dettagli, tanti gli spunti degni di nota: un lieve aumento nella fruizione di news sull’argomento, il primato degli scienziati tra le fonti considerate affidabili, la preoccupazione diffusa rispetto alla disinformazione sulla crisi climatica, e un Sud del mondo molto più consapevole rispetto al Nord delle conseguenze di questo fenomeno sulla salute pubblica. La maggior parte degli intervistati, infine, ritiene che ad esercitare l’influenza maggiore sulle decisioni in materia ambientale siano proprio i media. Una responsabilità delicata ed epocale.
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