Sta per chiudersi (su HBO e in Italia su Sky) la quarta e ultima stagione di Succession, una serie che ha molto da insegnare su come si racconta una faida familiare, ma che ha soprattutto un cast in forma stellare da cinque anni. Su StartupItalia il guest post di Diego Castelli, uno dei massimi esperti italiani di serie tv
Se parliamo di cinema, in termini critici e accademici, al centro di tutto c’è l’immagine. Non cosa si racconta, ma quello che si vede. Non a caso, la figura più importante del cinema è il regista.
Con le serie tv, storicamente, l’approccio è diverso. Anni di programmazione e decine di episodi fanno emergere la figura dello sceneggiatore, o forse dovremmo dire dello showrunner: la persona che tiene le fila della narrazione, che sceglie cosa far accadere, quali evoluzioni, quali sorprese. Tuttavia, se anche la scrittura è la vera regina della serialità televisiva, questo non significa che ciò che si vede sullo schermo non abbia alcuna importanza. Soprattutto, quella stessa diluizione temporale rende ancora più decisiva la formazione di un cast adeguato alla storia che si vuole raccontare. Si può reggere un film diretto, scritto e montato con abilità, anche se uno o due interpreti sono fuori posto. Ma nessuno guarda una serie tv per mesi o anni, se il/la protagonista ispira antipatia e repulsione (a meno che non sia proprio il nocciolo dell’esperienza che offre). La storia delle serie tv è piena di “facce” indimenticabili (dalla Angela Lansbury de La Signora in Giallo allo Hugh Laurie di Dottor House, dalla Gillian Anderson di X-Files al Bryan Cranston di Breaking Bad), che lo sono non tanto per la specifica bravura in un episodio o due, ma per la capacità di reggere il peso di anni di storie, di entrare nella quotidianità degli spettatori, diventandone amici, confidenti, compari. Qualche volta, poi, ad attori e attrici viene chiesto qualcosa di più: non solo illustrazione di una sceneggiatura, ma vera e propria firma, costruzione di un’identità collettiva che va oltre le parole scritte dei dialoghi, per diventare essa stessa puro spettacolo.
È il caso di Succession.
Succession, lotte fratricide e sospensione nel limbo
In onda su HBO negli Stati Uniti e su Sky in Italia, Succession è una delle regine seriali di questi anni, non senza sorpresa. È vero che è prodotta da una delle reti storicamente più abili e influenti nel creare fenomeni televisivi, ed è altrettanto vero che al nocciolo della sua storia c’è una faida familiare che, da che mondo è mondo, è uno dei temi più gettonati dall’intera narrazione umana. Allo stesso tempo, però, è anche una serie molto grigia, smaccatamente finanziaria, piena di complicazioni economiche e aziendali. Eppure, da cinque anni (e quattro stagioni) la storia della famiglia Roy, in cui un magnate dei media ormai anziano viene incalzato dai figli che vorrebbero prendere il suo posto (la “successione” del titolo) non ha fatto altro che raccogliere elogi e fare proseliti. Alla base di questo successo c’è ovviamente una buona scrittura e sì, anche una buona regia, ma c’è anche un impatto immediato, una forza espressiva, che viene direttamente da chi sta in scena, davanti alla telecamera, a pronunciare le battute.
Ciò che colpisce prima di tutto, di Succession, è la presenza di un centro di gravità rappresentato dal patriarca Logan (spietato, cinico, senza sentimenti), attorno al quale orbitano figli e lacchè vari, ognuno dei quali è chiamato a mostrare due forze contrapposte: quella centrifuga, che spinge lontano dal padre padrone e dalla sua tossicità, e quella centripeta, rappresentata dall’irresistibile attrazione che Logan esercita intorno a sé. Pur percependo le differenze fra i vari personaggi, chi guarda Succession impara presto a riconoscere un preciso stile recitativo, che esprime quelle due forze nella forma di una continua indecisione, di un limbo in cui i personaggi galleggiando annaspando senza sosta. Vogliono essere intelligenti, risoluti, spietati e infallibili come Logan. Eppure sanno di essere più stupidi, indecisi, morbidi e incapaci di lui. La tensione costante, visibile nei figli di Logan ma non solo, è quella fra un continuo desiderio di successo, di affermazione, e perfino di approvazione paterna (l’odio manifestato nei confronti di Logan è pari al desiderio del suo amore e del suo rispetto), e il puro terrore di non essere mai all’altezza della situazione. Frasi smozzicate, pause continue, occhi spauriti, risolini nervosi e continue arrampicate sugli specchi sono fra gli strumenti principali con cui il cast di Succession, in maniera molto più articolata rispetto a quanto potrebbe dirci la sceneggiatura nuda e cruda, ci comunicano una tensione lacerante, uno stress infinito, perfino un imbarazzo contemporaneamente insostenibile e ipnotizzante, che ci fa venire in brividi lungo la schiena ma ci impedisce di staccare lo sguardo.
Un cast sconosciuto… fino a quel momento
Il fatto che praticamente tutti i personaggi siano accomunati da questa invincibile soggezione nei confronti di Logan, non significa che siano privi di individualità. Anzi, è proprio nelle piccole differenze che nascono le figure indimenticabili e capaci di collezionare premi e candidature. La prima attenzione si posa su Kendall, non il primogenito ma l’erede designato, che sotto la pressione paterna sbanda e finisce della depressione e nella dipendenza, sempre in bilico sull’abisso. La figura più fragile e più tesa, interpretata da un Jeremy Strong che si è già portato a casa un Emmy Award e un Golden Globe. Negli anni ha poi raccolto sempre più favore Roman, il fratello più piccolo, quello sarcastico, apparentemente rilassato e grezzo, ma anche quello più influenzabile. A interpretarlo un ottimo Kieran Culkin, ormai da tempo uscito dalla lunga ombra del fratello (l’altro Culkin, Macaulay, era il Kevin di Mamma ho perso l’aereo).
E che dire di Sarah Snook, interprete di Shiv, la figlia che oltre alle fragilità di tutti gli altri deve aggiungere il suo essere donna, e come tale obbligata a una tacca in più di carisma e spietatezza per essere presa in considerazione in un mondo ferocemente maschile. Ma non serve stare solo nei diretti consanguinei: basta spostarsi appena di lato per trovare un altro premio Emmy, in quello che forse è il personaggio più emblematico di tutta la serie. Parliamo di Tom, il marito di Shiv, interpretato da Matthew Macfadyen. Quel premio, meritatissimo, è arrivato all’attore inglese soprattutto per la sua capacità di cambiare costantemente faccia: goffo, dimesso e vagamente ridicolo in compagnia di chi ha più potere di lui, e improvvisamente capace, sveglio e “sgamato” quando ha a che fare con Greg, il cugino di famiglia, quello che arriva perennemente ultimo. Nella lotta per abbeverarsi alla fonte di potere di Logan – che è interpretato da Brian Cox, l’unico attore veramente famoso della combriccola, che abbiamo visto in tanti film di successo come Troy o la saga di Jason Bourne – Tom è il simbolo del continuo spostamento fra potere esercitato e subito, fra paura e strafottenza, fra umiliazione ed ego.
Una storia che conosciamo bene
La vera forza di Succession, in fondo, va cercata qui, e mentre guardiamo la quarta e ultima stagione, specialmente dopo il memorabile, calibratissimo twist del terzo episodio, ce ne rendiamo conto come mai prima. Quella di Succession è una storia di crescita, di passaggio all’età adulta, con tutto il doloroso eppure necessario distacco e superamento della figura genitoriale che tutto questo comporta. La grande verità, il vero motivo del successo di questa serie, sta in quello che vediamo sulle facce di questi attori e attrici, nei tremolii di occhi e voci, nel costante, epidermico senso di fragilità che emana dalla loro recitazione.
Siamo noi: noi con i nostri genitori, noi con i nostri capi, noi in un qualunque rapporto con l’autorità, nel costante tentativo di definire noi stessi in relazione (ma soprattutto in contrasto) con il mondo esterno. Se ci appassioniamo con Succession, anche e soprattutto quando i giovani Roy sono chiamati a diventare grandi, è perché il loro imbarazzo è anche il nostro. La loro battaglia per l’autodeterminazione, così complicata, goffa e faticosa, è anche la nostra. Ci sembrano piccoli, meschini, egoisti e inadeguati, ma non riusciamo a smettere di guardarli per tutte le volte che noi ci siamo sentiti, o ci sentiamo, così. Che siano ricchi sfondati e squali della finanza, diventa un dettaglio davvero secondario.