Rieccolo, il trattino.
Nelle puntate scorse ci aiutava a identificare le connessioni tra le parole, aprire quelle composte, come una cerniera, e guardarci dentro, in cerca di qualcosa di prezioso (respons-abilità, ri-spetto, sem-plicità…).
Stavolta serve a connettere i temi della scorsa stagione, centrati sull’inclusione di genere (>>> sessismo, femmina, binario, violenza…), con quelli di questa stagione, all’inclusione intergenerazionale, ossia il dialogo possibile tra le fasce di età. E a connettere i significati della prima metà della parola, “gener”, con il pragmatismo portato dall’AZIONE: suffisso che basta aggiungere ad altre metà già significative (rel-, partecip-, motiv-, negozi-, form-, trasform-, comunic-…) e senti un’esplosione di fatti, densi e concreti.
Partiamo ancora una volta dal dizionario (sapendo che ci entri con un dubbio, ne esci con dieci):
GENERAZIONE
- L’atto del generare, il processo per cui esseri viventi producono esseri viventi della stessa specie, e il risultato di tale processo
- L’insieme dei discendenti che si trovano a una stessa distanza da un capostipite comune
- Nella specie umana, l’insieme degli individui aventi pressappoco la stessa età
- In statistica, nelle scienze attuariali e nel linguaggio comune, il tempo medio (all’incirca 25 anni) che intercorre tra una generazione e quella successiva.
Sono solo alcune delle definizioni dal Treccani.
E teniamoci lontano dalla teoria linguistica della grammatica generativa di Chomsky, che pure ci induce in tentazione, concentrata com’è sugli aspetti mentali del linguaggio, e interessata a ciò che accomuna le lingue naturali oltre a ciò che le distingue (in questo testimone del concetto stesso di diversity & inclusion).
Facciamoci bastare una suggestione, suggerita dal verbo latino adolescere, crescere, per altro al participio, un modo sottostimato dai linguisti: al presente ci dà l’adolescente, al passato la persona adulta. Chi è in trasformazione, chi compie la fatica del crescere, e chi quella fatica l’ha compiuta già. Da un lato un cambiamento, dall’altro il prodotto finito. Due tempi diversi della vita, identica AZIONE (e dai).
Generazioni: un po’ di ordine?
Non sembra difficile. 7 le generazioni viventi: rivolgiamo un pensiero alla “Greatest Generation” (nate/i tra 1901 e 1927), che han vissuto (o combattuto) la Seconda Guerra Mondiale, e alla “Generazione silenziosa” (1928-1945), protagonista della ricostruzione (che poi vorrei proprio conoscerla la mente sociologica o demografica che ha battezzato le generazioni culturali: magari mi consiglierebbe una buona marca di whisky).
Dalla nostra prospettiva, c’è da studiare bene i baby boomer, e poi le ultime lettere dell’alfabeto, X-Y-Z, per poi ricominciare alla greca, con l’α dei piccolissimi.
Baby boomer (1946-1964). Spesso definiti conservatori, resistenti al cambiamento (che poi devo ancora conoscerlo, anche tra i giovani, un essere umano così propenso al cambiamento), ossessionati dal lavoro, dalla stabilità dei valori e dei comportamenti sociali, anche se in realtà protagonisti di grandi rivoluzioni culturali, una su tutte il ’68. Con tali cliché, come sarà lo sguardo dei più giovani?
Gen X (1965-1980). La definizione risale al primo movimento punk inglese, e sottolinea il nichilismo (X come segno di cancellazione > il nulla), il rifiuto dei valori dell’età precedente, il senso di pessimismo e di sfiducia. Etichettare questa generazione come cinica e individualista non creerà qualche barriera nel confronto con le altre?
Gen Y, o Millennial (1981-1996). Descritti come narcisisti, pigri, scostanti. Pare contengano sia il prototipo del bamboccione sia quello del choosey (schizzinoso). Giovani adulti che vivono in casa con i genitori, restandone dipendenti sul piano economico e affettivo. Oggetto di critiche anche perché sembra siano i principali beneficiari del reddito di cittadinanza, che per molti è insostenibile, disincentiva la ricerca di un lavoro, crea dipendenza, abusi e frodi, iniquità sociale, inflazione. Pennellate che non inducono al rispetto e alla simpatia da parte delle generazioni precedenti e successive.
Gen Z (1997-2012), o anche Centennials, Digitarians, iGen, Plurals, Post-Millennials, Zoomers… Facile stereotiparli come dipendenti dalla tecnologia, superficiali, poco impegnati, molto social con i loro smartphone, ma per il resto molto individualisti. Ma così non si valorizzano le competenze e le prospettive che possono offrire alle altre età.
Gen α (nate/i dopo il 2012): non etichettiamoli, almeno loro, i veri nativi digitali, e sorvoliamo sul fatto che abbiano cellulari e tablet fin dalla culla.
Di recente si è anche aggiunta la Generazione C. Con vari significati per la C: tra le più in voga c’è connected customer. E si capisce che l’età c’entra poco: rientrano nella categoria anche persone 50-60-70enni, purché usino smartphone o tablet per informarsi, leggere e scrivere recensioni di acquisti, mostrare sensibilità alla user experience, insomma comprare online.
Ma tutte queste classificazioni non finiranno per irrigidire gli stereotipi, e quindi influenzare malamente le relazioni intergenerazionali? (altro che Diversity & Inclusion) E se volessimo favorire la collaborazione e l’apprendimento reciproco proprio sfidando gli stereotipi, promuovendo il dialogo e abbracciando la diversità di prospettive e di competenze?
Vediamo se la lingua ci dà una mano: ecco alcune parole chiave per un dialogo tra età diverse.
Alfabeto intergenerazionale
L’alfabeto è una struttura logica semplice. Distribuire alcune parole lungo un alfabeto è una scelta espositiva che offre un mix tra comprensione razionale e intuitiva. Azzardiamo quindi una lista di parole, alcune senza tempo, altre più contemporanee, alcune più scavate, altre solo sfiorate, che sembrano avere qualche rilevanza sul confronto tra gener-azioni.
Ansia. «Ogni mattina mi sveglio / sto già cominciando a odiare un po’ il mondo». Così Giorgio Gaber apriva nel 1980 la sua Pressione bassa, e poi ripeteva, in un crescendo, «C’ho l’ansia c’ho l’ansia c’ho l’ansia c’ho l’ansia». Precursore: dai boomer l’ansia era minimizzata, ritenuta naturalmente passeggera, semplice coda di nervosismo. Solo più tardi è stata riconosciuta come effetto della pressione della società, ma affrontata in modo individuale. Più recente è la disponibilità a parlarne in modo aperto, cercando terapie e supporto, anche online. Oggi «che ansia!» è tra gli intercalari più diffusi del linguaggio giovanile.
Bellezza. Su questa parola, confesso: I have a dream. Un sondaggio popolare: «Apri l’armadietto di un bagno a caso: contiene rasoi, dopobarba, creme idratanti e antirughe, lifting per il contorno occhi, siero e olii per le borse, fondotinta, correttori, mascara, ombretti, rossetti, eyeliner, cipria, pennelli, shampoo, balsamo, maschere per capelli, cerette, pinzette e creme depilatorie, profumi, deodoranti, lozioni varie. Ad abitare quel bagno è una sola persona: indovina il genere.» Ripeterei il sondaggio ogni 2 o 3 anni. Senza malizia, eh, né indulgenza sessista; solo spirito di osservazione.
Clima. Interessante l’etimo: in greco è inclinazione. È l’angolo di una regione della terra rispetto a equatore e poli, e la temperatura che la caratterizza. Qualcosa di obliquo, dunque, non stabile. Proprio come il clima, e mica solo oggi. Che il cambiamento climatico sia una costante della vita dell’umanità, visto che una cosa inclinata è per natura soggetto a cambiamenti?
Uno studio pubblicato su The Lancet mostra che il 60% dei giovani nel mondo è preoccupato per la crisi climatica. È evidente che chi ha oggi 20 o 30 anni, e quindi un orizzonte di vita lungo, abbia più preoccupazione per la sostenibilità rispetto a persone più in età. E che espressioni come “Agenda 2050, “Green Deal”, “Net zero”, abbiano impatti diversi per chi si vede in prima persona dentro quell’orizzonte e chi no.
Altrettanto vero, però, che gridare «vi siete mangiati tutto», o «ci avete rubato il futuro» non aiuta un vero confronto con chi dovrebbe sentire l’urgenza dei più giovani. Una negoziazione intergenerazionale sarebbe più proficua dei pur importanti Fridays for Future. Le parole di guerra generano effetti repentini e violenti: servono parole che generino accordi graduali e inclusivi.
Se poi scaviamo nella parola Digital scopriamo che il ponte tra l’etimo latino digitus, dito, e il significato tecnologico è nell’inglese digit,cifra, numero. Quindi se oggi è quasi sinonimo di “elettronico” o di “informatico” è solo per quell’umanissima origine del dito quale primo strumento per contare (zero e uno sono i numeri del codice binario). E lì, dopo le riflessioni già fatte in tema di ageismo, nella prospettiva del dialogo intergenerazionale potremmo citare sia gli aspetti positivi della cultura digitale, come la comunicazione facilitata da smartphone e social media, le videochiamate (pensiamo al sollievo portato in tempi di Covid a famiglie, scuole, università e professioni), e anche gli aspetti negativi, come il divario digitale, l’isolamento, le derive patologiche per l’uso eccessivo, l’impatto sulla salute mentale e sulle relazioni, la minaccia alla privacy ecc.
Dentro la parola Erasmus potremmo riscoprire che il progetto è un acronimo > E.R.A.S.M.U.S. = European Region Action Scheme for the Mobility of University Students, e anche un richiamo al filosofo umanista Erasmo da Rotterdam, fermo difensore della pace tra i popoli, che viaggiò in tutta Europa per ampliare le proprie conoscenze.
Il concetto di Famiglia ci racconta quanto sia cambiato il sistema di valori nella società. La famiglia, prima sacralizzata, elemento di misurazione di successo o fallimento della persona, poi criticata, attaccata, ora rinasce sotto nuove forme e con altri obiettivi. Quello di Genitorialità, prima schematizzato in madre padre e un po’ di figli, si apre oggi a progettualità e forme diverse. E lì in zona c’è quello di Homeless, non nel senso romantico di clochard, ma della fatica di molte persone, studenti, lavoratrici e lavoratori di ogni età, ad avere una casa.
Nel cuore dell’alfabeto incontriamo la parola Inclusione, che ispira questa rubrica, alla J il calciatore ceco Jakub Jankto, primo atleta di serie A a dichiararsi omosessuale, sfidando il machistissimo mondo del calcio italiano. Alla K possiamo riconoscere il ruolo di bilancino dello stipendio (RAL 50K = Retribuzione annua lorda 50mila euro); simbolo, oltre tutto, di un’economia va sempre più abbandonando la materialità di carta e monete. Alla L potremmo impantanarci su come cambia la concezione del Lavoro per effetto della pandemia, di criteri di retribuzione e di work-life balance in continua evoluzione, delle continue Migrazioni, sia quelle tra piattaforme tecnologiche, sia quelle di enormi gruppi di persone in fuga dai loro paesi; e anche in cerca di una definizione di New Normal che rappresenti un Orizzonte vivibile per qualche miliardo di persone.
E poi potremmo confrontarci su motivi e conseguenze del disamore per la Politica, fenomeno che non riguarda solo le generazioni più giovani, ma che vede partire da lì le preoccupazioni maggiori. La Q potrebbe essere lettera simbolo di libertà. Infatti il significato di Queer è forse l’elemento più interessante dell’universo LGBTQIA+ (Lesbian, Gay, Bisex, Transgender, Queer, Intersexual e Allied, con il “+” che tiene aperta la lista): in origine eccentrico, insolito, bizzarro, indica oggi le persone che non si conformano alle consuetudini del binarismo su genere e/o sessualità, o si stanno interrogando sulla propria identità (q = questioning).
C’è poi una parola – meglio, un valore – oggi di gran moda: Resilienza, la capacità di un individuo di affrontare avversità e traumi senza opporvisi, ma adattandosi al cambiamento. Resilienza sembra aver vinto la battaglia con resistenza. (A me continua a piacere anche resistenza, il saper stare dietro, re– dietro, sistere = stare, non in attacco, ma a difesa di un valore).
E lì vicino anche Sostenibilità, parola chiave per l’economia, degli Stati, delle Istituzioni, delle aziende, delle famiglie. Parola chiave per l’ambiente. So-stenere è stare sotto. Garantire fiducia e agilità a chi sta sopra. Come l’acrobata che sostiene, da sotto, l’acrobata che sta sopra, e dà equilibrio, stabilità, coraggio.
In fondo troveremmo TikTok che, fedele al proprio nome (il ticchettio di un cronometro e il ritmo di un tamburo), è il social media più proiettato nel futuro, motore di talento, creatività e passione. Poi troveremmo Università, luogo per eccellenza del confronto tra generazioni, che è diventata un’opzione di massa e offre ai giovani l’occasione per viaggiare nel mondo. E poi Veg, parola capostipite di un complesso dibattito sul cibo, che spazia dalla diffusione dei disturbi alimentari fino al confronto etico ed economico sui cibi sintetici.
In coda, una riflessione sul Washing, che sia greenwashing (l’ambientalismo di facciata), oppure pink o purplewashing (le verniciate di femminismo), o anche rainbowashing (i brand che si presentano come alleati della comunità LGBTQI+), o di ogni altro colore ci si tinga per indicare un impegno di facciata.
Saltiamo le tre lettere di coda, X-Y-Z, che hanno già avuto il prestigio di rappresentare un’intera generazione.
Le parolacce: un connettore tra generazioni
Non è per puro gusto di originalità che trova spazio, in questo contesto, un elogio delle parolacce. Quale originalità, poi, se il turpiloquio ha contaminato giornali, tv, cinema, politica, tutto? Il fatto è che la potenza espressiva del parlare libero merita qualche considerazione nel nostro contesto.
Non azzardo un’analisi socio-linguistica dei lati fastidiosi e offensivi, sintomi di violenza e disagio. Mi limito a un’osservazione: una volta desemantizzata, spogliata dei significati concreti, la parolaccia perde il carattere di volgarità, e può farsi puro divertimento, comunicazione genuina, diretta, simpatica, creativa. E anche inclusiva.
Inclusiva, sì. Perché saranno stati le scrittrici e gli scrittori, i cantautori, gli artisti che hanno interpretato la rivoluzione culturale del ’68. Sarà stato il fermento di quegli anni nelle famiglie, nelle scuole, nelle piazze, negli uffici (Fantozzi santo subito, con quella sua eroica definizione della corazzata Potemkin). Sarà l’espressività di quel linguaggio così vivo che attraversa tutte le età. Se riusciamo ad aggirare quel retaggio perbenistico che ad alcuni fa bollare il tono come rozzo e irrispettoso, scopriamo che è merito della generazione dei boomer aver portato quell’energia dentro la vita reale.
Intendiamoci, non sto qui a osannare l’antico celodurismo dei politici padani o il vaffa day grillino: il dibattito politico ne avrebbe fatto a meno. Né sostengo che il cantautorato italiano è così ricco proprio grazie allo sfogo di Masini contro i denigratori, o alla colorita rima di Pino Daniele nel suo Je so’ pazz, o alle congetture di Fabrizio De Andrè sul carattere arcigno delle persone basse (Un giudice). Né, alzando il tiro, che la gloria di Dante sia dovuta a quel censuratissimo verso sulle sonorità corporee del diavolo Barbariccia.
Propongo solo un pensiero: viva la parolaccia, quando dà forza buona al messaggio, e viva la sua funzione di connettore tra le generazioni. Senza abuso, senza trivialità, ma anche senza falsi pudori. La nostra lingua è così felicemente ricca di parolacce! Sul piano relazionale, si potrebbero considerare l’indice della cordialità tra le persone. Le usiamo negli scambi di lavoro per accompagnare un incarico, un augurio, un pericolo, la pigrizia del collega, una conferma attesa dal cliente, o una rampogna dal capo (sorry, cazziatone). Ragazze e ragazzi le usano oggi con i nonni, che non si limitano ad ascoltare rassegnati, ma ci costellano, a loro volta, i racconti delle assemblee condominiali o delle code al supermercato. Le usano madri e padri con figlie e figli per ridurre le distanze, per vivacizzare la propria immagine, magari indurita da poca frequentazione.
Un prezioso sotto-linguaggio, che la mia generazione si divertiva a cercare nel vocabolario, e che poi si è iniziato a usare in vari momenti d’incontro, prima in cerchia ristretta, con la sordina, poi in situazioni più formali. Oggi credo meritino pari dignità rispetto a forme espressive con tradizioni più nobili: lo spregiativo -acce potrebbe restare solo come originaria nota di colore.