Diverse aziende (e qualche Stato) ci stanno provando. I risultati non mancano. Ma c’è qualche incognita
È vero che stacca e va a casa ogni giorno alle sei di sera?” domanda l’intervistatore alla fine della chiacchierata. Risposta affermativa. «[…] Quando uno è appassionato di uno sport e ha un’attività del tempo libero a cui tiene, ciò permette di gestire l’equilibrio tra famiglia, attività professionale e tempo libero. È l’equilibrio che permette di ottenere dei risultati. I manager che lavorano sette giorni su sette e 16 ore al giorno hanno un enorme margine di miglioramento nel loro ruolo».
Non è tratta da una rivista degli anni Sessanta. E a parlare non è il titolare di un maneggio di campagna. Sono parole di Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis. Cioè, di uno dei più grandi gruppi mondiali dell’automotive, nato l’anno scorso dalla fusione tra Fca (Fiat Chrysler Auto, che fa capo alla famiglia Agnelli) e Psa. Un manager alla testa di un colosso da 75,3 miliardi di euro di fatturato, titolare di quattordici marchi, con sedi produttive in ventinove paesi. Qualche riga più sopra, nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera, Tavares ammette di attaccare presto, alle sette del mattino. Ma la sera, via la giacca dall’appendiabiti, fuori le chiavi dell’auto dal cassetto, e rotta verso l’uscita. Niente ufficio, grazie. “Enorme margine di miglioramento” è aziendalese, ma il concetto è chiaro. E se a sbertucciare schiere di dirigenti e impiegati che si attardano al pc credendo di far bella figura è uno dei top manager globali, noto per l’approccio competitivo, forse è il caso di fare qualche riflessione.
Marissa Mayer e le 120 ore a settimana
Non sono lontani i tempi di Sergio Marchionne, noto stakanovista in grado di imporre ritmi forsennati capaci di sfinire anche i più motivati tra i collaboratori (per non parlare dei giornalisti al seguito). Non è passato poi molto da quando Marissa Mayer, ex amministratore delegato di Yahoo, si vantava pubblicamente di lavorare ben oltre centoventi ore a settimana. Anche in gravidanza, la manager si assentava solo il minimo indispensabile. All’epoca sembrava cool. Con la pandemia, le cose sono cambiate.
Il lockdown ha sdoganato il lavoro da casa, che da tabù è diventato un benefit scontato, al punto da essere tra le prime richieste poste ai selezionatori in fase di assunzione. A quel punto, il meccanismo si è avviato, con un effetto a palla di neve.
È cominciata un’era di riflusso? Siamo alle porte della decrescita felice teorizzata da Serge Latouche? No. Tutto ruota attorno al concetto – dal sapore decisamente economico – di produttività. Lo prediceva John Maynard Keynes, immaginando che grazie al progresso avremmo lavorato solo quindici ore a settimaa. Non è andata esattamente così. Finora.
Potremmo trovarci di fronte a un cambiamento di paradigma. Ne è convinto, ad esempio, Ryan Breslow, fondatore e amministratore delegato di Bolt, startup di San Francisco. Che ha recentemente dichiarato che nella sua azienda si lavorerà quattro giorni alla settimana. Per sempre.
“In molte società si fa un sacco di teatro, con le persone che badano più a far finta di lavorare che a farlo davvero” ha affermato alla Cnbc. “Un numero infinito di riunioni, documenti, presentazioni. È impossibile filtrare il rumore di fondo e arrivare al cuore delle faccende in questo modo”. Dopo qualche mese di sperimentazione, pare non facile, la scelta, però, è stata irrevocabile, e cristallizzata da un tweet pubblico: “Non potrei immaginare di guidare la società in nessun altro modo”. Secondo Breslow, il problema non è “se” altri lo seguiranno, ma “quando”. Anche perché lavorare quattro giorni può comportare un risparmio su alcuni costi fissi, dall’elettricità all’affitto di spazi che possono essere bloccati per un numero inferiore di ore, favorendo la rotazione e diminuendo le metrature. Per non parlare dei pasti. Tutto sta a sapersi organizzare.
I governi ci pensano: il primo sono gli Emirati Arabi
Anche i governi ci stanno pensando. Ad arrivare prima di tutti (ma con quattro giorni e mezzo) un paese mediorientale, gli Emirati Arabi Uniti: dal primo gennaio la settimana lavorativa comincia alle 7:30 e termina alle 15:30, tranne il venerdì, quando il cartellino si timbra alle dodici. La decisione – spiega una nota ufficiale – si applica a tutti gli enti del governo federale. Ma anche in Islanda, dopo una sperimentazione quinquennale, i risultati sono stati definiti “travolgenti”: produttività invariata e dipendenti più felici.
Ci si mette anche l’ambiente. “La settimana lavorativa sostenibile, in base ai livelli odierni di produttività e intensità di carbonio, dovrebbe probabilmente assestarsi ben al di sotto delle dieci ore a persona, anche nelle economie relativamente efficienti in termini di emissioni di CO2” ha scritto Philip Frey, del think tank Autonomy, in un rapporto, secondo cui una riduzione dell’1% delle ore lavorate potrebbe comportare la decrescita dell’impronta carbonica dell’1,46%. Il legame esiste, ed è stretto, anche secondo gli esperti dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change). Meno auto in strada, meno consumi (anche internet inquina, e parecchio): il lockdown lo ha dimostrato chiaramente.
Del resto, secondo uno studio dell’università di Cambridge risalente a un paio d’anni fa e pubblicato sulla rivista Social Science and Medicine, parrebbe che per evitare il rischio di depressione e ansia – superiore del 30% nelle persone disoccupate – non faccia differenza lavorare un solo giorno alla settimana o molto di più. I problemi sono altri.
…ma non mancano i contro
Il rovescio della medaglia è che una settimana corta potrebbe creare non pochi problemi in un mondo sempre più on demand e in cui siamo abituati a disporre dei servizi 24 ore al giorno. Sicuramente richiederebbe un riassetto di organizzazioni complesse per coprire le disponibilità, ma anche – e non è una questione secondaria – le interazioni con partner e fornitori. In questo senso, alcuni software potrebbero essere d’aiuto. Già oggi esistono assistenti vocali in grado di rispondere alla gran parte delle domande al posto degli operatori umani, e così perfetti – raccontano gli sviluppatori – che non mancano i casi di clienti che hanno provato a flirtarci. Non è il solo rischio: distribuire la settimana su quattro giorni mantenendo invariato il numero di ore – o gli obiettivi – potrebbe tradursi in un sovraccarico lavorativo: insomma, passare il weekend con il mal di testa non è il massimo. C’è l’impatto sui modelli di business, se, cioè, sarà realmente possibile in tutti i settori, se basteranno le stesse risorse o sarà necessario procedere a nuove assunzioni. E non è escluso che qualcuno decida usare i tre giorni liberi per fare due lavori e aumentare i guadagni.
Una società sempre più fluida sperimenterà nei prossimi anni soluzioni. Offrire la settimana di quattro giorni diventerà una leva competitiva nella corsa ai migliori professionisti. Non è detto che la conclusione non sia quella che si stava meglio quando si stava peggio. Ma anche in questo senso, largo alla creatività. Una proposta alternativa arriva da Dan Price, ceo della società di pagamenti statunitense Gravity Payments. Price nel 2015 si ridusse lo stipendio del 90% portandolo da un milione a centomila dollari l’anno. Nel contempo, aumentò quello di tutti i dipendenti, portandolo a un minimo di settantamila dollari. “Fox News mi ha chiamato socialista, dicendo che i miei dipendenti si sarebbero messi in fila per il pane”. Sei anni dopo le cose sono andate diversamente: il fatturato è triplicato, “e sono aumentati di dieci volte i bambini nati e le case comprate. I dipendenti hanno aumentato i risparmi e ripagato i debiti”. La sintesi? La dà lui stesso: “Always invest in people”. E non c’è bisogno di traduzione.