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A due anni dalla nascita della startup che sta provando a ridisegnare dal basso il mondo del fashion, la cofondatrice Francesca De Gottardo racconta i prossimi obiettivi
In una foto pubblicata sul suo profilo Instagram lo scorso anno durante le manifestazioni per Black Lives Matter a Milano, Francesca De Gottardo regge un cartello con su scritto: “Se non posso fare grandi cose, posso fare piccole cose in modo fantastico”. Dopo aver conosciuto la storia della giovane imprenditrice, la frase sembra essere il motto di Endelea, startup di moda sostenibile fondata nel 2019 insieme al fratello Andrea De Gottardo e alla collega e amica Serena Izzo. A confermarlo è la stessa Francesca: “Certo che lo è: non l’ho mica scritta a caso!” scherza quando glielo chiediamo.
Endelea nasce da un’intuizione di Francesca De Gottardo, laureata in archeologia originaria di Pordenone e milanese d’adozione, di realizzare una società benefit in grado di creare un ponte tra Milano e Dar es Salaam, la capitale economica e commerciale della Tanzania. Lavorando con una squadra di 12 collaboratori e 12 sarti tanzaniani, l’azienda realizza abiti e accessori in alcuni tessuti diffusi nell’Africa orientale. “Endelea è nata dall’esigenza di dare un valore aggiunto alla mia vita e provare a fare qualcosa per cambiare in meglio quella degli altri. Oggi abbiamo coinvolto 12 persone, domani, al crescere della società, potranno esserne molte di più. Il significato di quel cartello sta tutto qui”.
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I prossimi passi dell’azienda ne confermano la crescita: dopo aver quasi chiuso un investimento da 300mila euro, i soci di Endelea hanno in programma un nuovo round da oltre 500mila euro alla fine del prossimo anno. “Siamo partiti con una collezione pilota da 300 pezzi”, ricorda la cofounder, “per arrivare ai 3mila del 2021. L’obiettivo è arrivare a produrre 10mila capi entro il 2023, crescendo in modo sostenibile”.
Sempre avanti, senza fermarsi
Quando ci risponde al telefono, Francesca sta finendo di dare indicazioni a un cliente nel temporary shop di Endelea al quartiere Isola di Milano. “Ancora non abbiamo aperto un nostro negozio monomarca, a oggi l’85% delle nostre vendite sono online“, sottolinea. “Da quest’anno i nostri prodotti sono acquistabili in alcune boutique italiane, greche e francesi. Già nel 2022 abbiamo però in programma di aprire un nostro punto vendita e iniziare ad aprirci al mercato in Tanzania”.
Se avere la possibilità di mostrare le collezioni in uno store fisico permette di instaurare un rapporto diretto con i clienti e allargare la propria comunità, la scelta iniziale dell’online ha comunque permesso ai soci di Endelea di passare indenni il periodo della pandemia. “Serena proviene dal mondo dell’e-commerce e io da quello dei social media: la scelta del digitale ci è apparsa la più ovvia. Avendo registrato l’impresa a novembre del 2019, pochi mesi prima dell’arrivo del Covid, questa decisione ci ha permesso di sopravvivere”.
Dopotutto, che il percorso di Endelea non dovesse essere tutto in discesa lo si evince già dal nome, che in swahili significa “andare avanti, continuare e non arrendersi“. Quando, nel 2018, Francesca ha iniziato a progettare la sua idea, la Tanzania le è sembrato il luogo più adatto per sviluppare l’impresa. “Ero andata a Dar es Salaam per fare ricerca e, dopo aver parlato con l’ambasciata italiana e con l’Università della città, ho capito che il Paese si sposava bene con la società che avevo in mente”. In Tanzania, evidenzia la CEO, non esiste un’industria della moda e mancano le competenze tecniche alla base del settore. “La maggior parte della popolazione indossa capi europei di seconda mano e cinesi o si rivolge al singolo sarto che realizza il vestito su misura, senza nessuna ottica di scalabilità e nessun approccio di design dietro”.
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Così, Francesca e Serena hanno dato vita a una società benefit in grado di integrare le loro competenze e capacità di business con le conoscenze e l’abilità dei sarti tanzaniani. Un modello capace di valorizzare i talenti creativi di Dar es Salaam e della Tanzania, favorendo la conoscenza reciproca e l’intreccio fra due culture. E, per di più, capace di resistere alla pandemia. “Il Covid ci ha insegnato a fidarci di più gli uni degli altri“, dice Francesca. “Endelea ha un team italiano e uno tanzaniano che collaborano fra loro. Ma con la pandemia, dovendo realizzare la collezione invernale a distanza, il personale in Tanzania ha preso in mano più autonomamente la produzione dei capi ed è stato fatto un lavoro fantastico, accelerando un passaggio di consegne da parte nostra”.
Dai tessuti di Endelea un tuffo nella storia dell’Africa
Wax, kikoi, Maasai. Ciascuna delle tre stoffe utilizzate dai sarti di Endelea racchiude in sé un pezzo di storia del continente africano. “L’origine del wax è emblematica”, racconta Francesca. “È un tessuto coloniale portato in Africa da inglesi e olandesi che stavano tentando di replicare, attraverso il metodo industriale dell’800, la tecnica batik con cui si coloravano i tessuti indonesiani. I capi in wax erano destinati al mercato asiatico, che però li ha rifiutati a causa delle imperfezioni sulla stoffa, mentre sono piaciuti in Africa”. Nel corso degli anni, l’uso di questo tessuto si è sempre più diffusa nel continente africano, favorito dal basso costo e dalla particolarità dei suoi colori.
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Con il passare del tempo, gli imprenditori europei hanno adattato il wax ai motivi tradizionali africani e, di recente, questa stoffa ha incarnato messaggi di sensibilizzazione su alcune delle più delicate questioni politiche, sociali e religiose. “Ancora oggi, il più grande produttore di wax è olandese”, spiega la cofondatrice di Endelea. “Se da un lato il wax è una gigantesca appropriazione culturale, dall’altro è un bellissimo esempio di riscatto, da simbolo del colonialismo a simbolo dell’Africa e della sua cultura”.
Un salto nella storia africana e, in particolare, tanzaniana, è anche il kikoi. “Un esempio di slow fashion, abiti fatti ancora in telaio a mano, dove non esiste il concetto di standard”. Gli ultimi arrivati in casa Endelea sono però i tessuti Maasai. “Abbiamo stretto una collaborazione con il Maasai Intellectual Property Iniziative, ente che ne tutela la cultura nell’utilizzo dei marchi e dell’immagine, per creare nuovi prodotti insieme”. Così, le founder di Endelea hanno raggiunto le botteghe Maasai nel nord del Paese, per acquistare le stoffe con cui realizzare la capsule collection “Meraviglioso Maasai“. “L’intento è di unire due mondi, senza decontestualizzarli. Non a caso, abbiamo realizzato gli shooting proprio con i Maasai, nei loro villaggi. Posso dire che l’esperimento è riuscito: i capi sono andati a ruba e ci stiamo già preparando a lanciare la linea autunno-inverno”.
Un esempio per i grandi della moda
In Tanzania, Endelea ha anche inaugurato nel 2021 una partnership di cinque anni con l’Università di Dar es Salaam, per lo sviluppo di corsi specializzati nel settore della moda. “Il nostro impegno nella formazione è prima di tutto economico, investiamo una percentuale fissa dei ricavi lordi in questo ambito e spesso l’argomento è oggetto di discussione con potenziali investitori. Le prime lezioni”, continua Francesca, “hanno inizio in questi giorni. Sono tenute nelle aule dell’ateneo di Dar es Salaam da Debora Sinibaldi, fashion designer di Dior e professoressa del Politecnico di Milano”.
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A distanza di due anni dal lancio del brand Endelea, l’idea di Francesca De Gottardo e Serena Izzo rappresenta sotto molti aspetti un guanto di sfida lanciato ai marchi storici della moda italiana e non solo. “Non ho dubbi: quello che stiamo facendo è assolutamente replicabile dalle imprese molto più grandi di noi”, conferma la fondatrice della società. “Cerchiamo di offrire un nuovo modello alle istituzioni del Paese in cui operiamo, coinvolgendo gli studenti e i lavoratori in Tanzania, per poi proporlo alle aziende leader di settore e trovare nuovi partner disposti a cambiare insieme le cose”. Non resta quindi che guardare al futuro per vedere se il guanto sarà stato raccolto.