In un momento in cui le città svuotate dalle misure antivirus si interrogano sul loro futuro e cominciano a immaginare prospettive alternative, c’è un progetto che lancia una visione rivoluzionaria perché assume il punto di vista dei cittadini più piccoli, degli ultimi arrivati – i bambini. E a loro assegna una capacità di trasformazione urbana straordinaria. “Le città in cui viviamo, diciamoci la verità, non fanno felici nessuno e sono inadeguate a realizzare il bisogno umano di relazione e scambio sociale: del resto, le logiche con cui negli anni sono state via via disegnate e costruite sono puramente funzionali e hanno assunto come punto di vista quello dell’adulto e le sue necessità, che peraltro hanno finito per eleggere l’automobile a protagonista assoluta della vita urbana, con tutto quel che di negativo ne consegue”, comincia a raccontare Francesco Tonucci, famoso pedagogista, ricercatore del CNR oggi ottantenne, titolare di sei Ph.D honoris causa e del Premio Unicef 2019, nonché fumettista con lo pseudonimo Frato e padre del progetto La città dei bambini, che lui porta instancabilmente avanti da molti anni, in Italia e nel mondo, anche attraverso numerosi libri: il risultato è rappresentato da 250 città, alcune in Italia, molte all’estero – Svizzera, Spagna, America Latina – che si sono affidate al pensiero dei più piccoli per diventare più vivibili, aperte, umane, nuove.
Tonucci ne parla con le parole calde e leggere di chi da una vita vive ad altezza di bambino, riprendendo le parole di un grande pensatore. E comincia: “ Yanusz Korczan, pedagogo, pediatra, poeta, considerato il padre della Convenzione dei diritti del bambino, diceva: Tu dici che ascoltare i bambini è difficile, perché bisogna accucciarsi. In realtà è faticoso perché devi allungarti sulla punta dei piedi e stirarti per arrivare al loro livello”.
Professor Tonucci, per promuovere il cambiamento lei sostiene che bisogna partire dai bambini, lasciarsi ispirare da loro, ascoltarli. Perché?
Perché i bambini portano un punto di vista innovativo, suggeriscono logiche ed equilibri differenti dai nostri, che abbiamo ridotto le città a luoghi inquinati, freddi, davvero poco umani e piuttosto pericolosi per i più piccoli. Gestire una città secondo le logiche suggerite dai bambini significa avere città migliori per tutti, anche per gli adulti. Ed è la radice della democrazia, che si realizza quando si pone attenzione alle esigenze degli ultimi.
Quali strumenti hanno i bambini per farsi ascoltare dagli adulti che amministrano le città?
Il nostro progetto prevede che l’interlocutore dei bambini sia il sindaco, il primo cittadino. Nelle città in cui noi andiamo a divulgarlo, proponiamo da un lato che vengano istituiti dei veri e propri consigli composti da bambini scelti a sorteggio, delle mini assemblee in cui loro possano raccontare al sindaco com’è fatto il posto in cui amano vivere e possano presentare proposte, così come proteste; dall’altro prevediamo che i bambini siano lasciati liberi di occupare il territorio, di vivere gli spazi urbani, di giocarci dentro come il loro istinto e il loro sapere suggeriscono, certi che i loro comportamenti spontanei rivelino a chi amministra nuovi parametri a cui ispirarsi. Nel nostro progetto i bambini incalzano il sindaco chiedendogli di recuperare quel punto di vista che ha perso diventando grande: nella prima pagina de Il piccolo principe si legge che tutti i grandi sono stato bambini una volta, ma pochi se ne ricordano.
Immagino che sia abituato a sentirsi obiettare che i bambini non possiedono sapere e competenze, ovvero conoscenze adatte a coprire un ruolo così cruciale.
Assolutamente, è un’obiezione che mi viene mossa spesso. E rispondo che non è vero. O meglio, i bambini non portano competenze assimilabili alle nostre o che con le nostre possano competere, è vero ed è ovvio, ma ci porgono un patrimonio preziosissimo: la diversità. Loro hanno la capacità di farci toccare con mano le tante contraddizioni che noi adulti assumiamo come necessità. Noi viviamo in città inquinate, tagliate da strade congestionate, prive di spazi verdi, che costringono i bambini a non poter uscire di casa, peraltro giustificando le paure dei genitori, e non riusciamo a vedere oltre la necessità di questo modello. I bambini, invece, ci insegnano che ci sono molti altri modi praticabili di vivere e che per vederli basta ascoltarli. Ecco, la città dei bambini è un modo nuovo di pensare.
Al suo progetto hanno aderito o, comunque si sono ispirate diverse città, perché la sua è sì una città ideale, ma è realizzabile. Come si sono trasformate quelle in cui effettivamente i bambini sono riusciti a fare sentire la loro voce?
A me piace raccontare il caso di Pontevedra, città della Galizia che sta diventando un esempio per il mondo e che ha messo al centro la persona che si muove a piedi. Lì un sindaco-medico che riteneva inaccettabile che una città non consentisse ai bambini di andare a scuola da soli e agli anziani di percorrere in completa sicurezza le strade, ha realizzato una rete di marciapiedi molto intelligenti, restringendo la carreggiata destinata alle automobili. Oggi in città le auto non possono superare i 30 chilometri all’ora, nel centro storico i 10 chilometri e non possono essere parcheggiate nello spazio pubblico, ma solo dentro il proprio cortile o in appositi luoghi, perché lo spazio pubblico è stato restituito alle persone e al gioco dei bambini; visto che la città è piovosa, poi, i marciapiedi sono stati fatti ampi tanto quanto è richiesto per consentire il passaggio simultaneo di due pedoni con l’ombrello aperto e si trasformano in attraversamento pedonale senza soluzione di continuità. Risultato: inquinamento ridotto, incidenti stradali al minimo, la gente che si è ripresa lo spazio urbano…
Ha accennato al gioco all’aperto, che so essere per lei un punto fondamentale: lei sostiene che permettere ai bambini di tornare a giocare fuori, come meriterebbero ed è giusto che sia, avrebbe un effetto trasformativo immediato e di enorme portata, e restituirebbe loro la gioia.
Nelle città che abbiamo costruito abbiamo via via allontanato i bambini dagli spazi aperti, li abbiamo costretti nelle case, dove giocano con device elettronici e giocattoli industriali. E quando li portiamo fuori, li costringiamo nello spazio recintato di piccoli giardinetti: del resto, i genitori sentono che sono i soli spazi sicuri. Con la paura a fare da guardiana, abbiamo via via sottratto ai nostri bambini l’esperienza incredibile del gioco libero, che è creatività, libertà, invenzione, scoperta e, certo, anche rischio e pericolo… come del resto è l’esperienza umana. Se noi assumiamo il principio di restituire ai bambini il gioco all’aperto nelle strade e nelle piazze, automaticamente ci sentiamo costretti a dare un’altra forma alle nostre città. Guardi il paradosso: non lasciamo che i nostri bambini giochino nelle strade perché le riteniamo pericolose, in realtà le strade sono pericolose proprio perché non ci sono i bambini. Se lasciamo i bambini fuori, immediatamente obblighiamo gli adulti a farsi carico della responsabilità di avere strade sicure e pulite. Ribadisco: se noi assumiamo i bambini come parametro della città, loro diventano un motore di trasformazione incredibile. Il Covid oggi ci costringe a ripensare tutto: e allora, affidiamoci a loro per farlo finalmente con logiche ed equilibri differenti. Ne guadagnano le città, gli adulti, tutti. A monte c’è il riconoscimento del bambino come cittadino. Noi siamo soliti dire che i bambini sono i cittadini del futuro, intendendo peraltro con questo che li plasmeremo perché nella crescita si adeguino al modello di cittadino che abbiamo in testa noi: è una visione molto conservativa. In realtà i bambini sono cittadini ora, adesso, con tutti i diritti che ne discendono. Lo afferma anche la Convezione dei diritti del bambino, riconosciuta da tutti i Paesi del mondo, che sul piano giuridico incalza gli Stati a un livello più alto della legislazione ordinaria e che sui diritti dei bambini esprime principi che dovrebbero essere vincolanti.