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Le messe laiche delle grandi aziende tecnologiche propongono di volta il volta la novità migliore mai presentata su un palco. Ma in Silicon Valley hanno capito qual è la meta finale?
Ieri pomeriggio ho seguito la presentazione dei nuovi prodotti Google. Su Youtube, in splendida risoluzione e grande confort. Io seduto nel mio studio a Forlì, loro stipati in un anfiteatro stile industrial a New York. Eventi del genere, presentazioni alla Steve Jobs senza il talento magnetico di Jobs, sono ormai diventate la regola per l’industria tecnologica americana: con alterne fortune colossi come Google, Facebook, Microsoft, utilizzano il medesimo format inventato da Apple un paio di decenni fa. Una persona sul palco, slide in formato gigante e video patinati che si susseguono sull’enorme schermo alle spalle, applausi del pubblico ad ogni affermazione dell’imbonitore sulla eccezionalità del nuovo prodotto.
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Da molto tempo seguo simili eventi, non solo per la curiosità verso le nuove frontiere commerciali della tecnologia, ma perché simili eventi – compresi gli originali keynote di Apple dopo la morte di Jobs – offrono uno spaccato molto preciso della deriva dell’industria tecnologica americana. Così ogni volta, mentre le cose sul palco si susseguono, io inizio a pensare che siamo spacciati.
Siamo spacciati – penso – perché l’approccio ingenuo-deterministico, che gli americani del tech prediligono e che hanno spinto con grande forza negli ultimi anni, rischia di creare più danni che vantaggi. Perché risulta evidente il frequente navigare a caso di questi signori, innamorati come sono di quell’apologia del fallimento che è da sempre uno dei cardini retorici di quelle startup che loro ormai non sono più. Un’idea di ripartenza nella quale viene sempre taciuto un pezzo, forse quello più importante, e cioè che il senso della tecnologia e il suo eventuale successo non risiedono nel provare e riprovare, nel trovare la forza di ricominciare fino a quanto qualcuno non troverà interessanti i tuoi prodotti, ma nell’avere un’idea: nell’immaginare una ratio per il futuro delle nostre esistenze tecnologiche. Nel produrre un gesto culturale, non nel provarli tutti in sequenza.
Eventi come quello di Google ieri, e come molti altri in passato, indicano con chiarezza che un simile disegno preventivo non c’è: che la disponibilità di enormi quantità di denaro e nerdissimi laboratori di ricerca pieni di menti brillanti, che il susseguirsi di progetti all’avanguardia capaci di sollevare l’ammirazione di noi tutti nulla potranno se non saranno preceduti da un pensiero su come vorremo essere domani. E che quel pensiero non potrà essere certamente il compitino banale che ogni volta ascoltiamo da quei palchi.
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Senza un progetto che la preceda e le dia significato la tecnologia che l’industria americana propone al mondo rischierà di essere per tutti noi un salto nel vuoto senza ritorno. Google o Facebook domani potranno con un tratto di penna cancellare lo stupidissimo progetto che ci hanno presentato l’anno prima, ma i danni che quelle idee banali e pericolose avranno nel frattempo creato saranno la scia di una cometa assai difficile da ignorare.