Il nuovo libro di Federico Taddia e Carlotta Cubeddu raccontato dagli autori. “Le parole sono tutto: le parole definiscono chi siamo, le parole ci raccontano agli altri, con le parole possiamo arrivare al centro di noi stessi, con le parole impariamo a pensare. Ma non siamo più abituati a usarle”
Se ci sono libri capaci di spalancarti la testa, Penso Parlo Posto, breve guida alla comunicazione non ostile è certamente uno di questi. Va detto subito che è un libro per ragazzi, un libro che vuole allenarli a comunicare in modo più consapevole ed eticamente corretto sia in rete che fuori, ma che sa pizzicare anche quei genitori che non si arrendono alla dipendenza digitale di massa e ai suoi linguaggi omologati, quando non ostili. Penso Parlo Posto è per chi è pronto a fare la rivoluzione e trasformare il web in luogo civile e sicuro diffondendo il virus delle buone parole o per chi, almeno, punta a cambiare la sua parte di mondo, parola dopo parola.
A far germogliare questo libro prezioso dentro la casa editrice Il Castoro sono stati due professionisti che i ragazzi li conoscono da vicino: Federico Taddia e Carlotta Cubeddu, lui conduttore televisivo e radiofonico, giornalista e divulgatore capace di far digerire anche temi complessi ai più giovani, lei pedagogista, formatrice e tra i fondatori dell’associazione onlus Scioglilibro. Con il libro (che è illustrato da Gud), i due autori mettono i ragazzi in posizione scomoda con domande che interrogano la fitta pratica quotidiana delle loro interazioni. Ha senso rispondere in modo gentile agli haters? Fino a che punto è corretto camuffare la nostra immagine per apparire migliori? Cosa c’è di male se in Internet usiamo un’identità falsa? Ci si può rifiutare di stabilire contatti con i propri genitori on line? E ancora: come si riconosce una fake new? cosa fare se su un social viene detta una bugia su un’amica? usare le parole degli altri senza dire che non sono nostre è così grave?
Il bello del libro è che i due autori si guardano bene dal dare quel che il lettore inizialmente si aspetta: risposte. Dopo aver raccontato casi quotidiani reali che coinvolgono ragazzi e ragazze on line, anche attraverso schemi, fumetti e illustrazioni, i due seminano interpretazioni possibili, lanciano spunti di pensiero e ipotesi praticabili lasciando il lettore solo nel campo aperto della sua intelligenza a elaborare la “sua” soluzione. Ne esce un libro affascinante, complesso, sfidante, frutto peraltro della collaborazione con Parole O_Stili, progetto sociale di sensibilizzazione contro la violenza delle parole che ha lanciato il Manifesto della Comunicazione Non Ostile (fatelo proliferare in rete!) e che ospiterà il libro e chi l’ha voluto a Trieste, a fine maggio, in un importante incontro dedicato al cyber bullismo.
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L’intervista
Carlotta, mettete i ragazzi davanti alle grandi sfide etiche che lancia il web, ma vi tenete alla larga dal dire loro come fare. Niente regole, niente ricette, niente soluzioni how-to-do. Perché?
Perché sia io che Federico siamo convinti che bisogna dare ai ragazzi, e alle persone in genere, il potere di pensare da soli e trovare le proprie parole. Le parole sono tutto: le parole definiscono chi siamo, le parole ci raccontano agli altri, con le parole possiamo arrivare al centro di noi stessi, con le parole impariamo a pensare. Ma non siamo più abituati a usarle. Provi a chiedere a un ragazzo di definirsi con un pugno di parole: lo farà dicendo che sport pratica o che musica ascolta, esattamente come gli adulti lo esprimono con il lavoro che fanno. Purtroppo è rarissimo incontrare persone che si presentano in modo diverso.
Per scrivere questo libro avete fatto molta ricerca online. Che idea ti sei fatta dei ragazzi su Internet? Ci fai una sintesi?
Per la maggior parte sono curiosi, presi da una gran voglia di sperimentare, e cercano con forza dei modelli in cui ritrovarsi: gli youtuber glieli offrono ed è per questa ragione che hanno uno straordinario successo. Poi ci sono i reclusi, ragazzi che si precludono la vita reale perché rinchiusi nelle stanze davanti a uno schermo: le ultime statistiche ci dicono che sono in grande aumento e perciò rappresentano ormai un fenomeno da monitorare attentamente. E c’è un apice di ragazzi che sul web fa cose straordinarie, come costruire comunità che riescono a convincere le autorità a mettere la fibra in tutto il quartiere.
Cosa non capiamo noi adulti del modo di stare in rete dei nostri figli? Un esempio.
Che i ragazzi sanno comprendere di cosa sono fatti i vari ambienti del web e comportarsi di conseguenza. Prendiamo Fortnite, un game molto violento e che per questo preoccupa molto gli adulti: i ragazzi, invece, sanno starci dentro con la consapevolezza di essere in un contesto di gioco.
In cosa sono abilissimi?
Nel proteggere la loro privacy: sanno crearsi profili che rendono praticamente impossibile risalire a loro. Al contrario degli adulti, nei cui profili si può sempre vedere tutto, anche se magari loro credono il contrario.
Cosa rischiamo tutti, grandi e meno grandi, nelle nostre interazioni quotidiane?
Di chiuderci in una gabbia dorata dove replichiamo all’infinito la nostra visione del mondo convinti che sia la migliore o la più condivisa, sollecitati a farlo da algoritmi che continuano a proporci interazioni con chi la pensa esattamente come noi.
Tornando al titolo del libro, scrivete che, oltre a trovare risposte, volete allenare i ragazzi a farsi domande. Quali sono le domande che un ragazzo (ma anche un adulto) dovrebbe farsi quando è sui social?
Noi invitiamo i ragazzi a farsi domande come “cosa sento in questo momento?”, che induce a essere consapevoli dei sentimenti e delle emozioni che si provano, per riuscire a sintonizzarsi con gli altri ed evitare fraintendimenti. Un’altra domanda cruciale è: cosa sto costruendo sul web con le mie parole e le mie azioni?
Stando a quello che avete colto in rete, credete che i genitori siano consiglieri affidabili per i figli sulla gestione dei social?
Diciamo che li abbiamo colti lasciare in rete commenti non sempre edificanti, commenti che ovviamente i figli possono benissimo intercettare. Vale lo stesso per “metti via quel cellulare”, esortazione che i genitori ripetono spessissimo ai ragazzi, ma poi sono i primi a non separarsi mai dallo smartphone.
Ci dai un esempio ci comunicazione genitore-figlio sbagliata?
Mai insistere con esortazioni e divieti tipo, appunto, “staccati da quel telefono!”. Sono fallimentari. Nella percezione di un ragazzo, se un adulto vieta un’esperienza vuol dire che è bellissima: tenderà a ripeterla. Così come riempirlo di domande quando torna da scuola, piuttosto che raccontare a lui anche quello che abbiamo fatto noi. La comunicazione non si costruisce facendo interrogatori: si costruisce, piuttosto, condividendo.