Investimenti in ricerca ancora troppo bassi rispetto alla concorrenza europea. Ma i nostri cervelli restano i più brillanti a livello planetario
Un’innovazione capace di riunire i popoli, la tecnologia a fare da collante tra diverse nazioni e in grado di fornire risposte concrete ai problemi dell’umanità. Si respira aria di ottimismo alla settima edizione del Technology Forum organizzato da The European House Ambrosetti, sebbene non manchino neppure quest’anno alcuni punti dolenti come ricordato in apertura della giornata da Valerio De Molli – che del più importante think-tank italiano è CEO e Managing Partner.
La settima edizione del Rapporto
Una sfida che si consuma tra nazioni, se non addirittura tra macroblocchi della nuova geopolitica, e che invece da noi stenta ancora a trovare un ampio respiro. Nel riepilogare i risultati di un anno di lavoro del team che ha redatto la settima edizione del Rapporto Technology, intitolato “Le Nuove Frontiere dell’Innovazione”, De Molli ha messo in risalto gli aspetti positivi e negativi che caratterizzano l’ecosistema italiano dell’innotech. Un mondo dalle potenzialità enormi ma che soffre della scarsità di finanziamenti, con una tendenza in calo che meriterebbe una discussione ulteriore.
In Italia la percentuale di capitali investiti in R&D nel 2016 è stata pari all’1,29 per cento del nostro PIL, pari a 21,6 miliardi di euro. Siamo indietro rispetto al Regno Unito (40,4 miliardi), alla Francia che tocca quota 50,1 miliardi (il 2,25% del PIL transalpino), alla Germania che arriva a 92,4 miliardi e sfiora il 3 per cento del PIL. Siamo a distanza siderale dalla Cina e dagli Stati Uniti, che rispettivamente investono 453 e 203 milioni di euro ogni anno in ricerca e sviluppo. Anche il confronto con realtà più piccole come Israele e Corea del Sud, però, non ci premia: Tel Aviv investe il 4,25 per cento del PIL in R&D, Seoul arriva al 4,24 per cento e doppia abbondantemente l’Italia con 52,4 miliardi investiti ogni anno.
Nonostante queste cifre, e nonostante un settore privato che non riesce fino in fondo a supplire alle carenze dei finanziamenti pubblici alla ricerca, ci sono altre cifre che offrono un visione decisamente positiva: l’Italia resta il sistema ricerca più prolifico al mondo, con in media 16,12 pubblicazioni a testa per ricercatore nell’ultimo decennio e con un vantaggio consistente sui diretti inseguitori tra cui Regno Unito, Spagna, Canada, Stati Uniti, Francia e Germania. Bene anche l’aspetto qualitativo, oltre quello quantitativo: i ricercatori italiani vengono citati in media 282,2 volte in altre pubblicazioni, valore per altro in crescita, staccando ancora nettamente gli inseguitori. L’Italia, infine, offre al momento ottime opportunità per chi decide di fare innovazione qui da noi: siamo secondi solo all’Irlanda, in Europa, per misure fiscali che favoriscono questo tipo di attività.
Una nuova visione
Quello che emerge dall’interessantissimo dibattito della mattinata è che per il mondo si prospetta una nuova visione. Sam Pitroda, autentico padre della telefonia in India e già consulente in più occasioni del primo ministro di Nuova Delhi, traccia un quadro spiazzante e al contempo incoraggiante: “L’invenzione del transistor – dice – ha cambiato tutto: ha rivoluzionato il modo di comunicare, il trasporto, tutto ciò che facciamo. L’innovazione, oggi, è letteralmente nelle mani di tutti. La tecnologia è riuscita a incidere sulla longevità, sulla salute. Ma non è riuscita a risolvere tutti i problemi del mondo: perché molta dell’innovazione che vediamo oggi serve a risolvere i problemi dei paesi ricchi, che in fondo non hanno poi tutti questi problemi”.
L’India ha attraversato, come molte altre nazioni, gli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale a costruire e ricostruire: ottenuta l’indipendenza nel 1947, il Paese ha dovuto mettere in piedi l’istruzione, il welfare, le infrastrutture, un’industria manifatturiera. Per farlo, spiega Pitroda, l’India così come il Giappone e l’Europa hanno seguito il percorso tracciato dagli Stati Uniti: un percorso che prevedeva l’esportazione di capitalismo, diritti umani e tutto quanto ha segnato questi anni.
Oggi però la prospettiva è diversa: “Viviamo in un mondo che non è inclusivo, basato sul surplus e non sulla scarsità: eppure abbiamo ancora problemi a sfamare la popolazione mondiale” chiosa Pitroda. Che ribadisce: “Solo due cose contano davvero: il nostro pianeta e chi lo abita. Le nuove soluzioni che cerchiamo devono essere in grado di soddisfare tutti, non solo pochi. Abbiamo una lunga strada davanti da fare per comprendere cosa sia l’innovazione: innovazione è ridisegnare il mondo per lasciare qualcosa di buono a chi verrà dopo di noi”.
L’esempio israeliano, la tendenza cinese
Dalle parole di Pitroda, ai fatti. Ci sono due realtà profondamente diverse sul piano culturale e storico, ma che hanno in comune un fattore: la ricerca, spasmodica, di partner per sviluppare un ecosistema capace di catalizzare la crescita. Fu Xiaolan, professore alla Oxford University con una cattedra in tecnologia e sviluppo internazionale, pone l’accento su ciò che avvicina oriente e occidente: quantum computing, intelligenza artificiale, genetica, trasporto sostenibile, mobile, robotica, sono solo alcune delle voci che potrebbe costituire un ponte gettato tra Cina ed Europa.
La ricerca moderna, d’altra parte, è tutta fatta di collaborazione tra scienziati di ogni provenienza: “Più della metà dei progetti di ricerca più significativi in corso di svolgimento sono condotti tramite collaborazione internazionale” sottolinea il professor Xiaolan, con la conoscenza che fluisce su molteplici canali ed è fondamentale che rimanga tale la libertà di dialogo e collaborazione tra scienziati. Una ricerca, in altre parole, di respiro internazionale.
E di respiro internazionale devono essere anche le iniziative imprenditoriali. L’esempio perfetto è quello di Israele: una nazione piccola, ricca di buona volontà e di vocazione ma con un mercato interno troppo ristretto per costituire un volano sufficiente alla crescita. Per questo, spiega Erel Margalit che è fondatore di JVP (semplicemente: uno dei più importanti VC del mondo), le startup a Tel Aviv nascono già con ambizioni internazionali. Ed è questa la ricetta segreta per farle scalare in fretta: pensare di poter bastare a sé stessi è un errore marchiano, “un ecosistema è indispensabile per ottenere i successi sperati”.
Margalit, che ha alle spalle oltre 120 startup di successo finanziate, lancia anche una proposta: riproporre il format di successo di Israele in tutto il Mediterraneo, costituire dei poli di eccellenza verticali che diano i natali a startup dalle grandi prospettive internazionali. Casablanca, Instabul, Ramalla, Barcellona e anche Milano potrebbero diventare protagoniste di Yalla.10: ma affinché anche il capoluogo lombardo rientri in questo ambizioso progetto, sono indispensabili alcuni passi avanti – che la città italiana, per altro, ha già iniziato a fare.
Obiettivo New York
Con lo Human Technopole del Milano Innovation Discrict (MIND), Milano è già sulla strada giusta. Gianluca Galletto, italiano a New York dove svolge il ruolo di advisor del sindaco per gli affari internazionali e per le smart city, descrive la parabola seguita dalla grande città della costa est. Una realtà che, rispetto a San Francisco e la Silicon Valley, pagava un conto salato per quanto riguardava il conto dei talenti applicati alle discipline tecniche: dunque ha investito in quella direzione, mettendo assieme le grandi università e offrendogli spazio fisico dove creare nuovi poli tecnologici per sviluppare l’equivalente del MIT nella Grande Mela.
Una formula che ha funzionato, e che può essere replicata da noi. Attrarre talenti è legato a doppio filo alla possibilità per gli stessi di crescere e svilupparsi, oltre che a regole e procedure che favoriscano il loro ingresso (e in questo senso, dice Galletto, la politica protezionista di Trump ha complicato le cose). E con i talenti a disposizione diventa possibile anche far nascere e crescere le startup.
Si può fare, oggi New York vive un’epoca di particolare prosperità figlia di decenni di programmazione e investimenti: la domanda che si sono poste le amministrazioni è stata pressappoco, dice Galletto, “cosa serve a New York per essere migliore non tra 5 ma tra 50 anni?”. Il risultato è evidente, ed è il frutto di un connubio tra pubblico e privato: la stessa formula che è stata attuata per la valorizzazione dell’area Expo. Le premesse sono buone, c’è da augurarsi che possano convincere imprenditori come lo stesso Margalit a scegliere l’Italia come uno dei possibili teatri dove il futuro dell’innovazione troverà la propria casa.