Alla Greenhouse di Deloitte il dibattito si è fatto acceso a tratti, soprattutto nel corso dell’Oxford Debate che ha chiuso la giornata: messi uno davanti all’altro, i campioni di chi punta a rivoluzionare il mondo della finanza e chi invece si mantiene su posizioni più moderate non hanno esitato a confrontarsi senza esclusioni di colpi. Ma il dato fondamentale che emerge da questo confronto è uno soltanto: non c’è un muro che divide fintech e incumbent, c’è solo un distacco culturale da superare costruendo un ponte. Quanto emerso alla Greenhouse sembra dimostrare che il cantiere per realizzarlo è già aperto.
Un evento doppio
Non è un caso che i Fintech Talks di Deloitte quest’anno siano diventati un evento di FintechStage Festival 2018: la scelta di tenere in contemporanea e in diretta streaming il dibattito in due location, al Fintech District di Milano e nella Greenhouse di Deloitte, è servito appunto a mettere attorno allo stesso tavolo tutti gli interlocutori che animano questo mondo. Un momento di confronto utile anche a comprendere quanto avanti sia giunto il principio dell’open banking. Quanto visto e sentito è senz’altro confortante.
Partiamo da un principio, plasticamente descritto da Sam Maule, managing partner di 11:FS, nel corso del suo keynote introduttivo: in termini schematici, il modello di business che ha tenuto in piedi banche e istituti finanziari è rimasto sempre lo stesso da molti anni a questa parte. Un modello che funziona e che non sembra destinato a cambiare: o meglio, forse non sembrava lo fosse. Ma il salto tecnologico che sta trasformando tutto rapidamente in digitale non può essere ignorato: i punti di riferimento di questo settore, i marchi consolidati e le posizioni consolidate, possono essere messe in discussione – se non lo sono già da tempo.
L’esempio adottato da Maule è ricco di ironia: i Rolling Stones. Sulla piazza dagli anni ’60, sono ancora il gruppo rock più importante del pianeta. Lo scorso anno il loro tour ha registrato il tutto esaurito ovunque e ha generato i maggiori incassi del settore. Ma chi scommetterebbe nell’acquisto di un biglietto degli Stones per un tour del 2025 o del 2030? Lo stesso vale per le banche tradizionali: non smetteremo di ascoltare i dischi dei Rolling Stones neppure tra 10 o 20 anni, ma di sicuro non li andremo più ad ascoltare dal vivo. Allo stesso modo, dovremo cambiare le nostre abitudini per quanto c’è di finanza nella nostra vita: e le banche dovranno fare altrettanto.
Segnali incoraggianti
Sbaglierebbe comunque chi pensasse che il sistema bancario tradizionale sia rimasto immobile ad attendere l’inevitabile destino. Se è vero che le startup, le fintech, sono state capaci in questi anni di sfruttare al meglio i nuovi strumenti tecnologici e legislativi (basti pensare a PSD2), anche le istituzioni finanziare identificate come gli incumbent stanno affrontando una mutazione che però ha richiesto tempi più lunghi: una parte di questa lentezza apparente è anche dovuta al necessario rispetto delle moltissime regole a cui le istituzioni finanziarie sono sottoposte. E lo scouting condotto tra le nuove generazioni, così come la nascita di nuove realtà come il Sella Open Fintech Platform di Banca Sella o CheBanca! di Mediobanca, dimostrano che c’è un movimento in atto.
Il concetto di open banking può consentire a tutte e due gli interlocutori di questo mondo di fare un grande salto. Sono state Ghela Boskovich e Sophie Guibaud, rispettivamente Rainmaking Innovation e Fidor Bank, a sottolineare quanto banche e fintech abbiano molto da dare le une alle altre: se, come dice Boskovich, le fintech possono diventare per le banche un esempio virtuoso di efficienza e capacità di garantire margini, allo stesso tempo Guibaud ricorda che le banche hanno i capitali e le risorse utili a sostenere e promuovere nascita e crescita delle fintech. “È una situazione win-win-win questa – ha chiosato Gil Cohen, di Open Legacy – A trarne vantaggio sono banche, fintech e soprattutto i consumatori finali che possono furire del meglio di questa collaborazione”.
Stiamo vivendo un momento storico davvero particolare. Da un lato l’invecchiamento, più o meno precoce, dell’infrastruttura finanziaria esistente, legato a doppio filo con l’introduzione di nuovi scenari determinati dalla già citata PSD2 o dall’arrivo imminente della direttiva GDPR sulla privacy. Dall’altro un fervore rivoluzionario di chi cavalca l’innovazione tecnica e tecnologica e diffida di tutto quanto è “vecchio”: ma come ha ribadito Paolo Zaccardi, CEO della già citata Sella Open Fintech Platform, “Il digitale non ha distrutto la musica, ha solo cambiato profondamente il modello di distribuzione”.
Dunque c’è spazio per una effettiva collaborazione tra le diverse realtà . Le banche sono interessate alle opportunità e ai servizi che le fintech hanno approntato, magari da offrire ai clienti nella formula white-label, e le fintech possono scalare appoggiandosi al parco clienti delle banche. È qui che si materializza il principio dell’open banking: nella collaborazione in cui ciascuno mette a disposizione il meglio della propria offerta, e lo integra con il meglio di quella altrui. È una questione preminentemente culturale. La chiusa migliore è quella pronunciata da Diana Biggs, Head of Digital Innovation di HSBC, che ha ribadito come “il cambiamento debba sempre cominciare dalla testa”: dal management delle banche e delle altre istituzioni finanziarie, che oggi è pronto a misurarsi e confrontarsi con tutto quanto di buono e di nuovo hanno in serbo le fintech per la finanza.
Secondo @DianacBiggs l'innovazione è un concetto che parte dal top management. Senza una concreta rivoluzione culturale non è possibile perseguire l'#Openbanking #FintechTalks #FTSFEST18 pic.twitter.com/b44ZxHIyn9
— StartupItalia (@startup_italia) May 8, 2018