Non sono vietati, anche da noi come in tutta Europa è in vigore il regolamento sui “novel food”. Ma il ministero precisa che nessuno ha ottenuto l’autorizzazione prevista. E così il ragù di grilli rimane (per ora) una chimera
Insetti sì, insetti no. Il regolamento europeo sui nuovi alimenti (“novel food”), il n. 2015/2283 approvato il 25 novembre 2015, è in vigore dallo scorso primo gennaio. Se ne è parlato molto, nelle settimane precedenti, e con toni fra il goliardico, l’entusiastico e il catastrofista. Ma le speranze di vedere sulle tavole degli italiani insetti di vario tipo (coleotteri, lepidotteri, locuste, grilli, cavallette, tarme di varia specie, anche se per “nuovo alimento” si intende un’ampia gamma di prodotti o che non viene consumato in modo significativo dal periodo antecedente al maggio 1997) ne escono per il momento mortificate.
Il ministero della Salute ha infatti diffuso una circolare nella quale specifica che “al momento nessuna specie di insetto (o suo derivato) è autorizzata per tale impiego”. Cioè appunto per quello alimentare.
Le ragioni dello stop
Come mai non possiamo ancora ordinare una bella pizza scamorza, pachino e bachi da seta? Il punto è semplice nel metodo e complesso nella sostanza. Dal regolamento sono trascorsi più di due anni, che era il tempo fornito ai Paesi membri per recepire le direttive e disporre le norme attuative. Come spesso capita l’Italia è un po’ in ritardo sui tempi e dunque non solo l’uso e la commercializzazione di alimenti a base di insetti (su quel genere di “nuovi alimenti” sembra soffermarsi il ministero, più che su alghe o altri tipi), in teoria possibile, è al momento priva di specie autorizzate. Le aziende che operano in questo ambito sono dunque in forte svantaggio rispetto ad altri Paesi, che si sono invece fatti trovare preparati all’appuntamento del primo gennaio.
La nota del ministero della Salute
Dal ministero si specifica infatti che “in riferimento all’articolo 35 del Regolamento (UE) 2015/2283 sulle “Misure transitorie”, va chiarito che alcuni Stati membri hanno ammesso a livello nazionale la commercializzazione di qualche specie di insetto in un regime di “tolleranza”. È stato comunque stabilito, con lo stesso articolo, che per le specie in questione deve essere presentata una domanda di autorizzazione, al fine di definire le condizioni atte a garantirne la sicurezza d’uso per una libera circolazione sul mercato UE. Nel frattempo gli Stati membri che ne hanno ammesso la commercializzazione prima del 1 gennaio 2018 possono continuare a mantenerle sul loro mercato”.
Il percorso di autorizzazione
In altre parole, il percorso di autorizzazione di questo genere di alimenti è cambiato. Se prima del 2015 ognuno poteva fare un po’ come voleva – e infatti ci sono Paesi in cui qualcosa si trova da tempo, in tal caso potranno mantenerlo in commercio senza problemi – dal primo gennaio scorso un’azienda che voglia lanciare sul mercato un prodotto di questo tipo deve chiedere l’autorizzazione al Paese di appartenenza che, a sua volta, sottoporrà la domanda al vaglio degli Stati membri e nel caso chiederà un parere ulteriore all’Efsa, l’autorità europea per la sicurezza alimentare. Semplicemente, in Italia quel percorso – che pondera valutazione nazionale ed esame continentale – non ha ancora fornito alcun esito positivo.
“In Italia non è stata ammessa alcuna commercializzazione di insetti e pertanto la commercializzazione come alimento di un insetto o di un suo derivato potrà essere consentita solo quando sarà rilasciata a livello UE una specifica autorizzazione in applicazione del regolamento (UE) 2015/2283” specifica il ministero, a dire il vero confondendo un po’ le acque. Forse volontariamente. Perché il quadro, su scala continentale, appare invece piuttosto chiaro. D’altronde, sempre sul sito del ministero, nella sezione dedicata ai “nuovi cibi”, si legge che “per immettere sul mercato comunitario un “novel food” un operatore del settore alimentare deve richiedere l’autorizzazione completa attraverso l’autorità competente di uno stato membro, per l’Italia al Ministero della salute”. Il dicastero prepara una “relazione di valutazione iniziale” e la inoltra alla Commissione Ue, questa la trasmette agli altri Stati membri per raccogliere osservazioni oppure obiezioni motivate a cui, eventualmente, il richiedente è tenuto a rispondere. Poi, “i nuovi dati prodotti sono di nuovo valutati e se non ritenuti sufficienti si acquisisce il parere dell’Efsa“.
Chi decide alla fine?
Ma chi decide, alla fine? In effetti l’Unione Europea, ma il passo iniziale va fatto in Italia e il parere del ministero conta eccome, sui tempi di eventuale autorizzazione. Quel che il ministero dell’Eur sembra ribadire è che, fra chi ha effettuato quelle richieste dall’Italia (e non è dato sapere di quante aziende si tratti), nessuno ha ottenuto il via libera europeo: “L’atto finale è una decisione di autorizzazione (oppure di diniego) pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Comunità – si legge – solo in caso di relazione di valutazione iniziale favorevole e nessuna obiezione motivata l’immissione può avvenire dietro autorizzazione rilasciata dallo stato membro che ha ricevuto la domanda”. Che è esattamente ciò che hanno fatto alcuni Paesi, ricorrendo appunto al già citato regime di “tolleranza”. Dalla spiegazione del meccanismo, soffermandosi un momento sulla situazione attuale, si deduce dunque che le eventuali richieste avanzate nel nostro Paese non hanno avuto parere positivo iniziale o che hanno ricevuto obiezioni da altri Stati membri a cui l’Efsa ha poi fornito parere negativo. Motivo per cui, per il momento, non c’è nessuno pronto ai nastri di partenza con un bel ragù di grilli.