Il counseling per i dipendenti, anzi no: collaboratori
Torretta oggi assiste ai forum hr (dedicati alle risorse umane) e fa notare come ormai non si parli più di dipendenti, ma di collaboratori. Come le aziende siano più attente a sviluppare l’empowerment e l’engagement della componente umana necessaria a creare un business solido e florido. Ma poi finisce che si incontra un ostacolo nelle persone stesse: la resistenza. “La parola cambiamento è in tutti i settori delle risorse umane, ma falliscono perché le persone resistono o non hanno capito”, spiega Torretta. E qui entra in gioco il counseling.
Cos’è e a cosa serve il counseling
Secondo Torretta “il counseling aiuta a sviluppare consapevolezza su quelli che sono i bisogni e gli obiettivi professionali e personali di una persona. Aiuta ad attivare un piano d’azione conseguente, mettendo al centro di tutto la persona, la sua responsabilità, la relazione con le persone, in primo luogo quella con se stessi”. Parola d’ordine: uscire dalla comfort zone.
Lei stessa ammette che, in più di due decenni di lavoro aziendale, il counseling le sarebbe servito almeno in tre occasioni. Nel passaggio da professional a manager: “lì il counseling mi avrebbe aiutato a saper gestire meglio le persone, a imparare a delegare, ad accettare il controllo e la responsabilità del team, sviluppando e aiutando a sviluppare sia le hard che le soft skill“.
Il secondo, durante le riorganizzazioni: “quando si va via da un’azienda a causa di riorganizzazioni, serve un sostegno per non perdere fiducia nella missione, nel valore”. Il terzo, per evitare il rischio di diventare ciò che non si vuole: “una volta mi hanno chiesto di creare una mappa di cambiamento. Ho detto che stavo diventando un manager asettico e politico. Non volevo diventarlo”.
Si può pensare che il counseling sia necessario solo in presenza di realtà strutturate, che in fase di startup servono sì le soft skill, magari servono più le hard come dice Emilio Sassone Corsi di MAIN, perché è tutto entusiasmo, creatività e business plan appena nati. E invece no.
Il counseling nelle startup
“Gli startupper partono con grande motivazione ed enfasi, senza darsi ruoli. Ma ad un certo punto c’è la chiusura di un primo ciclo, il patto lavorativo si fa più chiaro. Chi ha vissuto la dinamicità dei primi tempi, può vivere male l’appiattimento dell’attività su un sistema manageriale. Ed è qui che il counseling potrebbe supportare il singolo ma anche i gruppi, per risolvere creativamente i conflitti, le difficoltà e potenziare l’attività, – spiega la counselor, che aggiunge – Ogni volta che chiudiamo un ciclo, significa accettare le perdite emotive, rielaborare e riprogettare le possibilità per il futuro”.
Secondo Laura Torretta le soft skill necessarie ad affrontare al meglio la creazione e l’evoluzione di una startup sono l’intelligenza emotiva, per sviluppare consapevolezza di se stessi e degli altri. Segue l’empatia, la base per una vera comunicazione efficace e per creare inclusione sociale. Poi c’è naturalmente la resilienza.
I segnali che ci devono far capire che è giunto il momento di far ricorso al counseling sono semplici: il sentimento di insoddisfazione, l’incapacità di reagire, la resistenza a un cambiamento. Il supporto di un counselor può essere essenziale anche per sviluppare le soft skill, stanarle o potenziarle.
“Se sentiamo di essere prigionieri di abitudini che non ci fanno stare bene, che si mettono tra noi e il nostro benessere. Quando sento di non decidere più, di non essere al centro della mia vita. Quando sento di poter essere qualcos’altro, ma di non riuscire a realizzare quel qualcos’altro – sono tutti momenti in cui è bene far ricorso a un confronto”.