Storia di uno dei papà dell’e-tacs e del gsm in Italia e di CuboVision, che molla Telecom (2 volte) per inseguire il suo sogno. E oggi, con la sua Vetrya, fa l’Ipo a Piazza Affari
Roma, via Flaminia 189. Anno 1998. Squilla un telefono, al quartier generale dell’azienda che, da sempre, fa squillare i telefoni degli italiani. Da 4 anni, quella che per decenni fu la Sip si chiama Telecom Italia. “Sono Franco Bernabé. Venga da me più tardi, devo conferirle un incarico”. Se questa storia fosse la sceneggiatura di un film – e un po’ lo è – questi sarebbero i primi fotogrammi. Subito dopo, però, il regista ci suggerirebbe di schiacciare il rewind, rimandando indietro il nastro fino a quando tutto ebbe inizio.
Storia dell’uomo che voleva dare a tutti un cellulare (e ci è riuscito)
L’ingegnere Luca Tomassini in Sip ci era entrato giovanissimo, nel 1987. A 22 anni. E’ tra quei “folli” che al tempo immaginavano (e volevano costruire) un futuro dove le persone avrebbero comunicato tra loro senza stare attaccati a un filo. E se molti di noi oggi utilizzano un cellulare in parte lo devono a quello smanettone col mito di Marconi e una passione innata per ponti radio e antenne cresciuto nelle campagne umbre, a Orvieto. Assunto dalla compagnia telefonica nazionale, alla divisione “Mercato Rete”, da lui passano i progetti per lo sviluppo della rete Rtms 45 e della più nota E-tacs 900.
«In Italia la telefonia mobile non si conosce – ricorda, oggi, Tomassini – esistevano solo sistemi radiomobili di prima generazione, 160 e 45 mhz, e si poteva chiamare solo dalla macchina, perché i terminali mobili erano solamente veicolari di prima generazione. Non erano cellulari: si potevano fare chiamate ma non riceverle». Oggi i cellulari in Italia sono milioni, al tempo erano costosissimi e non si contavano più di 1.500 utenti.
1990. Mentre le autoradio degli italiani suonano le “Notti magiche” di Gianna Nannini ed Eugenio Bennato che accompagnano l’avventura dei mondiali di calcio, Tomassini e la Sip vogliono provare a vincere una sfida ancora più grande di una finale: realizzare il primo sistema di comunicazione mobile paneuropeo, derivato da un protocollo studiato in Inghilterra: l’E-tacs. Per la prima volta, entrava in funzione in tutta Italia una rete che consentiva di connettere tra loro centinaia, migliaia di nuovi telefoni «portatili e trasportabili». Anche se, come ricorda Tomassini, all’epoca «un microtac costava un milione e ottocento mila lire, ma nonostante ciò ci fu un boom, e da penultimi nella classifica europea diventammo i primi».
Gli anni seguenti sono stati quelli della grande rete Gsm, e il team del giovane ingegnere orvietano è sempre al centro di queste piccole grandi rivoluzioni: «Per la prima volta al mondo una tecnologia nata e pensata in Europa, con un grande contributo dell’Italia, decolla in tutto il mondo».
Addio Sip, benvenute Telecom e Tim
1995. La rete Gsm non è più una semplice rete come tante, ma La rete. Uno standard globale per le comunicazioni mobili. E con le reti nascono anche i primi operatori di telefonia cellulare. La Sip da un anno era diventata Telecom Italia e nasce Tim, acronimo di Telecom Italia Mobile.
Parallelamente, un’altra rete corre veloce lungo le famose “dorsali” e inizia a entrare nelle case di migliaia e migliaia di italiani: è Internet. Sono gli anni delle prime connessioni dial-up, dei provider sotto casa. Per Tomassini, che però non va in Tim e resta a Telecom è «un anno importante perché c’è in qualche modo l’evoluzione del mondo di internet. La connessione portava internet in mobilità e internet e lì cambia tutto il mondo».
L’incontro con Bernabé
1998. A capo di quella che nel frattempo era divenuta la prima telco del Paese arriva Franco Bernabé. Ma se da un lato l’innovazione corre veloce, dall’altro, in Telecom (come in tante altre grandi aziende italiane), la struttura organizzativa sembrava ferma agli anni ottanta. Una scrivania non la si nega a nessuno, ma più conti, più hai. Due poltrone, una pianta, un ufficio, e così via. Luca Tomassini ha appena dato alle stampe un libro, “Il futuro in Rete”. Segue il suo istinto e fa una cosa che molti non avrebbero mai osato fare: lo invia a Bernabé.
«Tra me e lui c’erano 7 livelli di differenza nella struttura Telecom. Mi chiamò direttamente, e quando andai da lui mi disse “oggi pomeriggio uscirà un ordine di servizio, lei diventa responsabile di un progetto su internet e intranet di Telecom”».
L’Opa Olivetti e l’addio a Telecom
Paradossalmente, la cosa più importante che scaturirà da quel incontro in via Flaminia non saranno i progetti che Bernebé e Tomassini realizzeranno insieme dentro Telecom, ma tutto ciò che metteranno in piedi fuori di lì. Nel 1999, infatti, dopo l’Opa di Olivetti e della Tecnost di Roberto Colaninno, l’Ad lascia Telecom. E Tomassini con lui. «Creammo il Gruppo Franco Bernabé, e tante nuove aziende, come Kelyan, Xaltia, Tidysoft, Green Media. Siamo stati anche i primi, nel 2003, a portare la tv sui telefonini. Al tempo i camera phone erano pochi. Ricordo il Nokia 6650, tecnologia 2.5G, meglio nota come Gprs». Erano tutte startup, solo che ancora non le chiamavamo così.
La metà perfetta
Un attimo. Ricordate, quando all’inizio dicevamo del film? Come ogni favola che si rispetti, nella vita e nella carriera di Luca Tomassini c’è una figura chiave. Una donna. Katia Sagrafena.
Anche lei inizia a lavorare giovanissima, nell’88, in un campo dove le donne ancora oggi vengono viste quasi come aliene, il coding. Un contratto da programmatrice a Sistemi Informativi, società del gruppo Ibm, che scalerà velocissimamente da analista fino a capo progetto. Poi, due anni in Siemens Informatica, dal 1997 al 1999, dove Katia coordina il team che avrebbe dovuto realizzare i progetti per l’intranet di Telecom. E chi era l’uomo cui il numero uno dell’azienda aveva affidato il coordinamento dei progetti internet e intranet? Lui, Luca.
Galeotta fu l’intranet. Tomassini e Sagrafena, da quel momento, diventeranno una cosa sola, nel lavoro e nella vita. Fino a quando anche lei, nel 2006, approderà nel management del gruppo Bernabé.
«Nel tempo libero andavamo in giro a vedere antenne – racconta Katia – la più grande passione di Luca». E i cellulari, ovviamente. E’ sempre Katia a rivelare alcuni frammenti di vita privata dei due. Come quando Nokia lanciò sul mercato il 6650. «Oggi c’è chi fa la fila fuori dagli Apple Store per prendere l’iPhone, noi nel 2002 siamo andati fino ad Helsinki per acquistare quel Nokia», racconta Sagrafena.
Il ritorno in Telecom e lo streaming
2007. Corsi e ricorsi storici. Franco Bernabé ritorna a vestire i panni di amministratore delegato del Gruppo Telecom. E con lui rientra anche Tomassini, messo a capo dell’innovazione di Tim e Telecom nonché, tra le tante deleghe anche quella che diverrà il terzo pilastro della sua carriera: lo sviluppo dei prodotti video broadband. «Eravamo cresciuti, avevamo fatto un sacco di cose, aziende che si erano affermate velocemente sul mercato». E cosa ne è stato? «Abbiamo venduto tutti gli asset». E subito dopo? In un anno ha inventato CuboVision, portando internet nella televisione, e la televisione su internet. Proprio quando anche un’altra azienda, a Los Gatos, in California, decide di abbandonare il business del noleggio di dvd e fare lo stesso. Quell’azienda si chiama Netflix.
I servizi video broadband, una galassia vastissima e inesplorata, diventano presto la nuova grande passione di Tomassini. Una passione letale, come un virus. Lui sente di voler impiegare tutte le energie per creare qualcosa di nuovo. Qualcosa di suo.
Due anni più tardi, nel 2010, un viaggio a Mountain View, e la sera, in hotel, lui e Katia si guardano negli occhi e dicono «facciamolo».
Lascia Telecom per fondare una startup, più correttamente un’azienda che vuole già diventare grande prima ancora di nascere. Ha in mente una realtà modello Google, un campus immerso nel verde, come una grande casa trasparente, popolata di giovani che non dovranno timbrare un cartellino ma solo essere felici di lavorare in quel posto. E per farlo ritorna a casa, a Orvieto.
Oggi quel posto, al civico uno di via dell’Innovazione si chiama Vetrya S.p.A, un campus di 20 mila metri quadri alimentato a energia solare, con al suo interno una palestra, campetti da calcio e tennis, centro estetico, asilo per i figli dei dipendenti. E addirittura un museo dedicato alle telecomunicazioni, da Guglielmo Marconi allo smartphone.
Da Orvieto a Piazza Affari, in 6 anni
A primo impatto, Vetrya sembra talmente avanti che anche per gli addetti ai lavori risulta difficile riuscire a capire davvero cosa faccia. E’ una media digital company, che sviluppa software e piattaforme multimediali. Ma soprattutto tecnologie. Alcune delle quali sono oggi il motore che fa girare i contenuti video online di tv e testate nazionali. Il core business, appunto, è lo streaming, i servizi legati alla distribuzione video digitale, sia live che on demand, quindi anche encoding, transcoding, storage, sistemi di pagamento e content delivery network. Un altro dato per capire quanto conti la società di Orvieto nel mondo video in Italia? Sono loro a effettuare, nel 2013, la prima trasmissione video streaming in 4K su rete mobile Lte.
Perché puntare tutto sui video? «Perché richiedono larga banda», spiega Tomassini. «Facendo l’imprenditore sto subito sullo scalino di quelli che si chiedono “come valorizzare questi investimenti?” Si valorizzano con i servizi a larga banda. Qual è il servizio che occupa più banda? Il mondo del video».
«Negli anni duemila avevo capito che la multimedialità era il futuro. Certo oggi la grande sfida riguarda il dimensionamento delle reti. Pensa che il 60% dei backbone, l’autostrada che collega le reti delle comunicazioni europee, è occupata dai video. E oggi usiamo quasi di più le reti mobili di quelle fisse». E riguardo i prossimi scenari, quale modello vincerà, Youtube o Netflix? «Ci sarà una convergenta tra broadcast lineare e broadbander. Sono 2 mondi che, a mio avviso, si stanno unendo».
I numeri danno presto ragione a Tomassini: Vetrya in 5 anni passa dagli iniziali 300 mila euro di fatturato ai quasi 40 milioni del 2015 (con un utile netto schizzato del 78% rispetto al 2014), e dà lavoro a più di 100 persone. L’azienda è il secondo “Great place to work”, il miglior posto dove lavorare, del 2016. Sola dietro Cisco. Al punto che le prime voci sono corse ormai anche oltreoceano e decine di studenti delle università americane fanno domanda di stage in Vetrya. E Tomassini nella sua Orvieto è oramai un’istituzione. Pensate che quando il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella decide di conferire a Tomassini l’onoreficenza di Cavaliere del Lavoro, nella cittadina è festa grande. Il sindaco invita tutta l’Umbria che conta al palazzo comunale: i sindaci della zona, presidente della regione, prefetto, direttore generale della banca e i genitori di Luca.
Il 29 luglio 2016 arriva l’Ipo. La favola di Luca Tomassini e Katia Sagrafena (che è direttore generale dell’azienda) si arricchisce di un altro importante capitolo: Vetrya entra in Borsa e diventa una public company.
Il futuro di Vetrya
No, non è un’exit. Non lo è, prima di tutto formalmente, perché l’aumento di capitale riguarda il 20% dell’azienda. E poi, soprattutto, perché Tomassini e Sagrafena non vogliono proprio sentirne. Avrebbero potuto vendere più volte in questi anni, ma non lo hanno fatto. «Ci dicevano “vendete, andatevene a pescare…”», racconta il Ceo di Vetrya. «Io non ho strategie di uscita, e voglio far crescere il gruppo perché in Italia c’è davvero molto da fare».
Ne vale veramente la pena? «Siamo nati in un’epoca che effettivamente ha visto una trasformazione del mondo in mondo digitale, e noi siamo gli unici che conoscono sia il prima che il dopo». E prima, com’era? «Tengo lezione all’università, a Viterbo, alla facoltà di ingegneria. Sono tutti ragazzi nati dopo l’84, che non ricordano, perché non l’hanno vissuta, la tv in bianco e nero, il vinile, il nastro, la dolcezza della dinamica analogica».
Ritorna Marconi, i ponti radio e lì dove tutto ebbe inizio. Quel Marconi che, come ci ricorda Katia, «non andava bene in greco e latino e la madre decise di mandarlo a ripetizioni, ma non nelle materie in cui andava male, bensì in quelle scientifiche. Incoraggiando il suo talento».
Aldo V. Pecora
@aldopecora