Piaccia o no, sempre più robot sono destinati in futuro a sostituirci sul posto di lavoro. Ma per comportarsi come gli esseri umani avranno bisogno di padroneggiare un comportamento chiave: il linguaggio. E non è detto che tutto vada proprio così come lo abbiamo immaginato.
È la Quarta Rivoluzione Industriale. Secondo il World Economic Forum, entro il 2020 almeno cinque milioni di posti di lavoro saranno rimpiazzati dai robot. E saranno sempre di più negli anni a venire. Sciagura, disgrazia, fine del mondo. Niente sarà più come prima. Ok, calma. È vero, niente sarà più come prima, ma non è detto che questo sia necessariamente un male. E poi, siamo sicuri che i robot possano sostituirci in tutto e per tutto?
Uguali e diversi
A quanto pare, non è proprio così. “Senza le persone, queste macchine non saprebbero fare nulla”, dice Gill Pratt, CEO del Toyota Research Institute e responsabile del DARPA Robotics Challenge, la competizione mondiale dei robot. “Negli ultimi anni sono stati compiuti straordinari progressi nella percezione, ma non nella cognizione delle macchine”. Aspetto che le renderebbe realmente autonome.
Per il momento dunque, la collaborazione tra uomo e macchina sembra essere la strada su cui si muove la robotica.
Certo se quasi mille tra scienziati e analisti, immagina “un futuro nel quale robot e agenti digitali rimpiazzeranno un numero considerevole di operai e di impiegati”, bisognerà fare qualche riflessione. Tra le categorie a rischio infatti, non ci sono soltanto coloro che svolgono lavori manuali e ripetitivi. O gli autisti professionisti, che guardano con terrore al fenomeno driverless car. Piuttosto, lo sviluppo di intelligenze artificiali sempre più performanti promette di rendere i robot in grado di sostituirci anche in situazioni lavorative più complesse.
Niente chiacchiere, siamo robot
Pensiamo al modo in cui creiamo relazioni sociali con i nostri colleghi di lavoro. Il prossimo step sarà proprio rendere i robot capaci di conversare come gli esseri umani, passando da un discorso all’altro con disinvoltura e comunicando empatia, fiducia, emozioni. Secondo Geoffrey Hinton, tra i massimi esperti mondiali di intelligenza artificiale, questo però non sarà possibile almeno fin quando le reti neurali da un miliardo di sinapsi delle macchine non si avvicineranno alle mille miliardi di sinapsi del cervello umano. Insomma, c’è ancora parecchia strada da fare.
Ci è già capitato comunque in questi anni, di imbatterci in alcuni prototipi interessanti. Dal nostro iCub al robot della Hanson Robotics, che interagisce con l’uomo ribattendo in maniera molto più convincente di un comune chatbot. Ma anche robot receptionist come nel caso di Pepper o dell’Henn-na Hotel in Giappone, gestito per lo più da robot.
Ma questo ci porta a considerare un ulteriore aspetto della questione. Il nostro modo di pensare, sentire e comportarsi è tutt’altro che universale. Pochi altri paesi al mondo hanno accolto con entusiasmo receptionist, babysitter, e badanti robot, come il paese del sol Levante. E questo per circostanze economiche, demografiche e culturali non facilmente replicabili altrove.
Sviluppare un pensiero critico
Quelli di Google comunque – compreso lo stesso Hinton – sono già al lavoro su un nuovo tipo di software capace di conversare, sostenere un ragionamento e persino flirtare con l’uomo. Anche se, secondo Robert Stephens, co-fondatore di assi.st, azienda leader nel settore della messaggistica aziendale, la tecnologia che mira a sostituire i lavoratori umani si trova ancora in una “fase rudimentale”. Quando si tratta di chat di gruppo, fa notare, le macchine non possono ancora distinguere tra esseri umani e bot. Quindi, prima che i robot siano in grado di rimuovere completamente le persone da interi settori professionali, avranno bisogno di imparare a lavorare più a stretto contatto con noi e assumere comportamenti più simili ai nostri, anche dal punto di vista emotivo.
La capacità di collaborare, unita alla creatività e ad un pensiero critico rimangono comunque le chiavi per combattere l’automazione del lavoro. Ma se questa si rivelasse una soluzione solo nel breve periodo, diversi guru della tecnologia, da Marc Andreessen a Jim Pugh, fino al fisico Stephen Hawking, vedono nel reddito a vita una possibile soluzione a lungo termine. Un reddito che, oltre a permettere una redistribuzione equa delle ricchezze, darebbe alle persone la possibilità di spendere il proprio tempo sulle cose che contano: famiglia, salute, realizzazione personale. Non proprio la fine del mondo.
Uno futuro tutto da scrivere
Un uomo discorre amorevolmente con la sua Samantha. Lei però non è una donna in carne ed ossa, ma un’intelligenza artificiale in grado di chiacchierare, apprendere, provare emozioni. Si tratta di una scena di Her, film del 2013, ma sopratutto di uno scenario che, a questo punto, ci pare assai realistico per gli anni a venire. O forse no?
E se i nostri calcoli fossero sbagliati?
Secondo Ken Anderson, etnografo a Intel, le aziende tecnologiche rischiano di essere scollegate dalla realtà. “La nostra mentalità ci porta a pensare che le persone comuni siano proprio come noi, la pensino come noi”, dice Anderson. “In realtà non è così”. Questo non vuol dire soltanto che la prospettiva di avere dei robot che possano conversare con noi più o meno come facciamo con altri esseri umani sia piuttosto lontana, a livello tecnologico. Ma anche che potremmo aver pensato erroneamente che la minaccia di automazione sia una fatalità globale, quando peculiarità culturali e altre variabili fanno pensare tutt’altro. Insomma, non è detto che il futuro assumerà le forme che ci aspettiamo, per diverse ragioni che attualmente tendiamo a non considerare. E tutto sommato forse, non ci andrà poi così male.