Nel 1983, a 45 anni, John Hull è diventato cieco. Per accettare la sua nuova vita ha registrato dei diari sonori per 3 anni. Da quel materiale è stato realizzato un film bellissimo e un’app, in realtà virtuale, per provare a vivere la stessa condizione e le stesse emozioni.
Ci sono cose che ti cambiano la vita. Per sempre. A John Hull, scrittore e teologo, è successo nel 1983 quando, a 45 anni, è diventato completamente cieco. Qualche mese prima della nascita di suo figlio. Per provare ad accettare una trasformazione così radicale, John ha iniziato a registrare un diario. In tre anni, tanto ci è voluto per “smettere di credere di essere una persona vedente che non riusciva più a vedere”, ha registrato più di 16 ore di materiale. In 8 nastri. Circa 1000 minuti per accettare, comprendere e, finalmente, riprendere a vivere: «In poco tempo i miei sogni si sono tramutati in suoni».
«Un capolavoro»
I diari di John Hull sono stati pubblicati nel 1990 e sono stati apprezzati sia dal pubblico che da professionisti ed esperti neurologi. Oliver Sacks, ad esempio, li definì: «Un vero capolavoro. Il resoconto più preciso, profondo e bello che abbia mai letto sulla cecità».
John Hull, purtroppo, è morto nel 2015. Abbiamo memoria della sua esperienza, però, grazie a un docufilm, Notes on Blindness, che oltre ai diari racchiude anche interviste allo stesso John e a sua moglie Marylin. Il lavoro dei registi, James Spinney e Peter Middleton, è stato anticipato da una serie di lavori pubblicati dal New York Times. «Quello che i diari raccontano è un processo di rinascita. John ha ridefinito la sua identità attraverso le sue paure e il suo desiderio di tornare a vivere» ha raccontato, al Guardian, Spinney.
John si è descritto come un veggente che poteva sentire con tutto il corpo. Sentiva la vita, in una maniera tutta nuova.
Le caratteristiche di Note on Blindness
Molti critici hanno definito il documentario come una sorta di “traduzione”. Delle emozioni umane, certo, ma non solo. Per rendere omaggio alla sua figura era fondamentale cercare di rimanere vicini al linguaggio che aveva scelto di usare nei suoi diari. Così come rispettare le pause, le accelerazioni e i silenzi. Anche il panico e la rabbia. Tutto ricreando le immagini fomate dalla voce e dal corpo di John. Spinney e Middleton hanno così deciso di rifiutare le inquadrature più tradizionali e la messa a fuoco perfetta.
Il film, uscito nel 2014, è stato ospite dell’ultima edizione del Sundance Film Festival, dove è stato anche premiato.
«Abbiamo passato molto più tempo in sala registrazione per recuperare, adattare e sistemare l’audio del film. Volevamo fosse il più vicino possibile all’originale. L’audio è davvero tutto in un lavoro come questo». Ha sottolineato Middleton ricordando come: «La cecità ha permesso a John di cogliere ogni sfumatura di ogni rumore, di ogni suono che lo circondava. Insieme a tante difficoltà è stata in grado anche di portargli dei doni. In alcuni momenti le immagini arrivano anche a distrarre lo spettatore ed è per questo che invitiamo tutti, come nella scena della pioggia, a chiudere gli occhi».
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Un’app per capire cosa si prova: Into Darkness
Il film è accompagnato da un’app, in realtà virtuale, che possa far avvicinare il pubblico alle sensazioni presenti nei diari. Una sorta di simulazione in cui l’utente può mettersi nei panni di John e vivere le stesse sensazioni. Corpi di luce, umanoidi che si perdono alla deriva, macchie e buio, suoni di animali. AudioGaming, l’azienda francese che si è occupata di realizzarla, ha cercato proprio di riproporre le emozioni provate dal teologo australiano durante i primi tre anni di cecità.
Per creare Into Darkness, inoltre, è stata usata una particolare animazione 3D, unita alla registrazione binaurale, ovvero quel metodo di registrazione che prevede una rappresentazione tridimensionale dei suoni. La tecnica probabilmente più adatta a riprodurre l’esperienza dell’essere ciechi.
In un capitolo, ad esempio, si percepisce il panico del protagonista nel constatare la perdita dei punti di riferimento e l’incapacità di individuare il proprio fisico in uno spazio fisico determinato. L’app, mentre s’indossa il visore, per afar provare la stessa sensazione, oscurerà lo schermo. La persona si ritrova così nel buio più completo, senza vedere le mani o il proprio corpo. Provare lo stesso panico, anche se solo momentaneo. Per capire e mettersi nei panni di chi, per davvero, deve rinunciare a vedere il mondo. Almeno con gli occhi.
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