Dopo i casi di quest’estate, e l’abbattimento di Cecil, i droni sono stati identificati come la possibile soluzione ad un problema enorme: fermare i cacciatori di frodo. Per capire meglio il fenomeno abbiamo cercato di rispondere alla domanda più ricorrente: i droni funzionano davvero nella lotta al bracconaggio?
Sfruttare i droni, o meglio gli UAV (Unmanned Aerial Vehicles) nella lotta al bracconaggio, per pattugliare le riserve e i parchi naturali dall’alto, è una possibilità che fin dalle prime proposte ha stuzzicato molto. Eppure spesso mancano i dati sull’efficacia di questo sistema, manca un’idea precisa, la risposta a domande molto basilari: Cosa ci si aspetta dagli UAV? Quali sono stati i risultati finora? Quanto costa implementarli in una strategia anti-bracconaggio, ad esempio in una riserva africana?
Senza un valido piano di conservazione alle spalle, un drone rimane solo un drone
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I droni non sono la soluzione ma un valido alleato
La prima cosa da considerare è che uno UAV non è la soluzione a tutti i problemi, ma un valido alleato in un piano d’azione ben più complesso e dopo aver identificato gli hotspot del bracconaggio, per concentrare gli sforzi. Alla Ol Pejeta Conservancy, la riserva kenyota che oggi ospita gli ultimi tre rinoceronti bianchi settentrionali ed è un santuario per il rinoceronte nero, era il 2013 quando un primo drone di Airware si è unito a una squadra già ben strutturata, che oltre ai ranger vede impiegata sul territorio l’unità K9, la prima unità di cani anti-bracconaggio arrivata in Kenya. Oggi conta nove esemplari tra cani da pastore belgi e bloodhound, tutti addestrati da Animals saving animals.
Sfruttare lo UAV non si è rivelato un “proiettile d’argento contro il bracconaggio” come spesso si legge sui media: i 10 giorni di sperimentazione a Ol Pejeta sono andati bene e le capacità del drone (visione notturna e/o infrarossi, telecamere termiche per individuare i corpi umani e animali) sono state preziose, ma i limiti superano ancora i vantaggi.
Le questioni: I costi elevati e la raccolta di dati
Un drone con autonomia sufficiente a fare un giro di ricognizione -comunque limitato, dati i quasi 400 chilometri quadrati di riserva da pattugliare- finisce per pesare troppo a causa della batteria, che si aggiunge agli altri strumenti necessari come la videocamera e il GPS. Il costo stesso è già un freno non indifferente: mentre si organizzano crowdfunding per rendere a prova di proiettile i cani di Ol Pejeta, spendere dai 50.000 dollari in su per un drone non è una soluzione ottimale. Per i più sofisticati da usare a scopi di conservazione, in una riserva così ampia, il prezzo può arrivare fino ai 250.000 dollari.
Entrambe le parti, Ol Pejeta e Airware, hanno concordato che c’è ancora molto da fare, e nel 2014 i tentativi sono andati avanti (non senza ostacoli). Ma il vero potenziale dei droni, secondo il personale della riserva, risiede più nella capacità di raccogliere dati (ad esempio censire gli animali dall’aria, in modo più preciso e rapido di quanto permettano gli strumenti usati finora) che in quella di monitorare i bracconieri. Considerando anche che, individuato un cacciatore di frodo, il compito di inseguirlo e arrestarlo rimane ai ranger: nell’ultimo decennio, secondo la Game Rangers Association of Africa, ne sono stati uccisi circa 1.000.
I numeri più importanti
Nonostante i risultati siano difficili da tracciare, i droni hanno il vantaggio di attirare fondi importanti. Anche il crime technology project del WWF ha testato i droni sul campo in Africa e in Asia, grazie a un finanziamento di cinque milioni di dollari arrivato da Google.
Alla fine ci siamo resi conto che gli UAV, se usati da soli, sono inutili
Ha commentato alla BBC Crawford Allan, direttore senior al WWF. «La prima cosa di cui hai bisogno a terra sono ranger ben addestrati ed equipaggiati che possano agire subito quando ricevono i dati. Combinando i droni con altri sistemi, come i tag posizionati sugli animali per monitorarli, la strategia diventa molto più sensata».
Altri 255 milioni di dollari sono arrivati nel 2014, stavolta al Parco nazionale Kruger, dalla Howard G. Buffett Foundation. Il Kruger, tristemente, è un altro parco preso di mira dai bracconieri come una sorta di supermercato per corni di rinoceronte, che sul mercato nero superano i 70.000 dollari al chilo. Nel 2014 il numero di rinoceronti uccisi in Sudafrica per i loro corni ha battuto un triste record: 1.215 animali, il più alto numero di sempre e in aumento del 20% rispetto al 2013. Sempre nel 2014, 30.000 gli elefanti uccisi per l’avorio delle loro zanne.
«Ci sono 12 gang di bracconieri attive nel parco in qualsiasi momento. È quasi come una zona di guerra», ha spiegato Allan nella stessa intervista. Dei 1.215 rinoceronti uccisi, 827 si trovavano all’interno del Kruger, che confinando con il Mozambico vede entrare e uscire impuniti anche i bracconieri che provengono da quello Stato.
Il primo anno di test al parco Kruger si è svolto in collaborazione con la UAV and Drone Solutions (UDS), un’azienda considerata -al pari di Airware- tra le fornitrici dei top di gamma odierni. I loro droni hanno pattugliato il cielo del Kruger a circa 250 metri di altezza, anche di notte, registrando video, scattando immagini, facendo riprese termiche.
In tutte le aree in cui abbiamo volato e in quelle in cui c’era uno UAV non c’era bracconaggio
Racconta Rob Hannaford di UDS, ma «appena ci spostavamo da quell’area, le attività riprendevamo. Anche se non siamo riusciti a catturare fisicamente un bracconiere, né ne abbiamo visto uno, il fattore deterrente era palese».
La tecnologia aiuta ma non risolve tutti i problemi
Quello stesso fattore deterrente sul quale molti esperti temono si conti fin troppo. Proprio come sono capaci di andare sui social network, è probabile che anche i bracconieri abbiano fatto le loro ricerche, scoprendo tutti i limiti attuali dell’utilizzo di droni. La drone fever, come la chiama l’ex generale dell’esercito sudafricano Johan Jooste (oggi leader delle attività anti-bracconaggio al Kruger), riguarda droni dal raggio d’azione che va dai 30 ai 50 chilometri di distanza, quando la vera necessità è coprire distanze molto maggiori e avere un’autonomia di oltre sei ore, impensabile per i droni più economici che volano per 30-90 minuti.
Le intenzioni sono le migliori e la tecnologia, ignorando fattori pratici come costo ed efficacia, è straordinaria. Ma potremmo averla caricata di troppe responsabilità, e ancora oggi, come precisa senza giri di parole anche Mongabay Wildtech in una guida molto dettagliata:
Nessuna soluzione che sfrutta gli UAV è stata messa in pratica con successo per le attività anti-bracconaggio
Ovvero con dati alla mano (solo raramente ce ne sono anche per gli RPAS, remotely piloted aircraft systems) per sostenere, al di là delle speculazioni e delle speranze, che il gioco vale la candela. Mostrando ad esempio un confronto tra le ore di volo dei droni e i record di attività di bracconaggio nei parchi.
La stessa organizzazione Save the Rhino, che dal 1994 (ufficialmente, ma sul campo da molto prima) si impegna per la protezione di tutte le specie di rinoceronti del nostro pianeta, invita alla cautela. E a prendere la tecnologia come qualcosa che può aiutare in un compito complicato come è combattere il bracconaggio, ma non deve essere vista come il game-changer che risolverà il problema.«“Nessuno dei reportage che sui media hanno parlato dei droni allo Hluhluwe-iMfolozi Park, ad esempio, ha riportato un commento dei ranger che ci lavorano, in merito all’efficacia o meno dell’utilizzo dei droni», scrivono. «Per quanto ne sappiamo il parco non ha dato seguito ai test con i droni comprandone uno da usare. Quando noi di Save the Rhino decidiamo come allocare i fondi, chiediamo sempre ai ranger quali sono le priorità e non ci focalizziamo sull’opinione delle aziende che producono strumenti specificiı.
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L’eccezione che conferma la regola
L’eccezione che conferma la regola, mostrando che gli UAV funzionano quando combinati (nei minimi dettagli) con altre tecnologie e con i ranger sul territorio, arriva dall’Università del Maryland. Insieme al suo gruppo di ricerca, Thomas Snitch ha elaborato un approccio poliedrico che nelle aree interessate ha fatto cessare il bracconaggio nel giro di una settimana. Combinando enormi quantità di dati come fasi lunari, informazioni da satellite, meteo, posizioni di precedenti episodi di bracconaggio, aree note per la presenza di animali, vicinanza di infrastrutture e molto altro, i ricercatori hanno identificato le aree critiche e permesso ai ranger di concentrarvi gli sforzi.
La prima volta che abbiamo fatto volare uno UAV in Sudafrica avevamo già identificato il punto d’interesse e il drone ha trovato subito una femmina di rinoceronte e il suo piccolo
Racconta in prima persona Snitch su The Conversation. «Erano a 30 metri da una strada principale. Abbiamo fatto muovere il drone oltre i due animali e dopo pochi minuti si è fermato un veicolo, vicino al recinto del parco. Sono scese tre persone e hanno iniziato ad arrampicarsi per uccidere i rinoceronti. I ranger, che si trovavano già sul posto, li hanno arrestati nel giro di 3 minuti. Negli ultimi 20 mesi questo episodio si è verificato decine di volte».
Crediti foto: Lengai101, Wikimedia Commons