Secondo i futurologi esiste una pluralità di futuri differenti, a verosimiglianza variabile. Futuri. Futuro è un concetto plurale. Da costruire, insieme.
L’affermazione “la tecnologia migliora il futuro” è molto interessante. Ogni sua parola è, infatti, un rompicapo.
Nei due precedenti articoli abbiamo esplorato i concetti di “tecnologia” e “miglioramento“. Adesso è la volta del terzo elemento della triade: il concetto di futuro.
[3] “Il Futuro”
Come la mettiamo? La mettiamo osservando l’ultimo elemento della nostra frase: il futuro. Innanzitutto, il concetto di “futuro” ha un problema: non esiste. Ce lo insegnano i futurologi: esistono una pluralità di futuri differenti, a verosimiglianza variabile. Futuri. È un concetto plurale.
Un concetto plurale che si sostanzia in una performance partecipativa continua. A seconda delle nostre azioni (di esseri umani e non-umani) certi futuri possibili cambiano; certi diventano più o meno verosimili; certi che non lo erano diventano possibili. Certi futuri diventano presenti e, quando passano, diventano passati.
Il futuro non esiste. I futuri sono una performance.
Inoltre i futuri, in tempi di cambiamento esponenziale come questi, sono particolari. Con l’aumentare della velocità del cambiamento tecnologico, i “segnali deboli” dei futuri sono sistematicamente presenti nel presente. Questo è un concetto molto semplice da verificare: basta guardarsi intorno. Ai bordi della realtà consensuale (quella che consideriamo la nostra realtà ordinaria, normale, il campo della normalità) si verificano costantemente i cosiddetti rituali curiosi.
I rituali curiosi sono cose che avvengono nel presente, ma che sono ancora considerate strane, peculiari, particolari e per cui, in generale, non vi sono ancora spiegazioni o comprensioni condivise.
Il selfie, fino a poco tempo fa, era un rituale curioso.
I rituali curiosi sono, spessissimo, segnali deboli di futuro, nel presente. Creano delle tensioni, dei movimenti, degli spostamenti percettivi. Tanto che alcuni di essi cambiano gli esseri umani, che cambiano le tecnologie, che cambiano gli esseri umani. Se prima il selfie era un rituale curioso, adesso abbiamo dispositivi, gadget, applicazioni per il selfie, che si è, nel frattempo, trasformato in una realtà consensuale, in un mercato, in un gesto compreso e mainstream.
Il Near Future Designer e la performance dei futuri
Questo tipo di fenomeno, nei momenti di cambiamento esponenziale, se non addirittura di discontinuità, avviene costantemente. Erano rituali curiosi l’aborto, la fecondazione artificiale, la chirurgia plastica, la raccolta differenziata, lo storico walkman, le mappe su Internet, e persino i social network seminali.
Il Near Future Designer (per esempio), fa proprio questo mestiere: analizzare la realtà consensuale, i rituali curiosi, lo stato delle arti e delle tecnologie (magari aiutato da BigData provenienti dai social network e altre fonti) per comprendere lo “strano adesso” (lo Strange Now, composto dalle tensioni che descrivono tutti questi elementi), al fine di descrivere delle Future Map, le mappe di futuro più o meno verosimili, ognuna delle quali composta da New Normals, le “nuove normalità”, ovvero quelle “cose” che nell’ambito di un futuro verosimile potrebbero rientrare nella normalità.
A questo punto il Near Future Designer usa uno o più New Normal per progettare un pre-totipo, un prototipo transmediale (ovvero capace di attraversare in maniera coordinata diversi media, online, offline, nella città…) in grado di stimolare la performance partecipativa sul futuro: un oggetto capace di creare linguaggio e spazio mentale, che materializza i segnali deboli, le loro implicazioni ed effetti, in modo che le persone li percepiscano e si attivino intorno ad essi esprimendosi sui futuri possibili e su quelli desiderati.
A questo punto affermazioni e domande di partenza cambiano.
Potremmo, ad esempio, riconoscere come la tecnologia sia ubiqua e multiforme. Capire che i modelli di sviluppo sono molteplici, e che spesso non coincidono gli uni con gli altri. Che non condividono filosofie e metriche per la loro misurazione.
E potremmo anche iniziare a pensare ai futuri in modo plurale, come qualcosa da costruire, come una “performance” collaborativa e partecipativa.
In questa visione, l’unica vera tecnologia è il linguaggio e, quindi, la capacità di comunicare, esprimersi, desiderare, immaginare e, soprattutto, collaborare.
Partendo dall’essere umano, potremmo chiederci quali tecnologie (esistenti adesso, nei possibili futuri vicini o remoti) potrebbero sostenere i nostri desideri, come individui e come membri delle società.
E non basterebbe ancora.
Potremmo forse partire dalla società, e chiederci quali tecnologie avrebbero la capacità di creare scenari più giusti, equi, sostenibili.
Potremmo, forse, liberarci della preoccupazione verso le tecnologie, e porci domande molto più semplici, valide verso gli esseri umani e non-umani (corporation o intelligenze artificiali che siano), in molta sincerità e, preferibilmente, pubblicandone i risultati.
Chi siamo? Cosa immaginiamo? Cosa desideriamo? Quanto siamo disposti a collaborare con gli altri per ottenerlo?
Sarebbe sicuramente una strada più interessante, forse più spaventosa, certamente più intelligente ed efficace per permetterci di organizzarci.
Salvatore Iaconesi e Oriana Persico