Non giriamoci intorno: a Gnammo come a Uber ed AirBnB non basterà appellarsi alla Costituzione. Serve un disegno di legge ragionato che aiuti il settore a svincolarsi dalle pressioni delle lobby. Peccato che per fare le leggi serva proprio l’aiuto delle lobby
Il problema è che non basterà. Non basterà il tentativo di mettere insieme alcuni principi di autoregolamentazione che puntino da una parte a tutelare i “clienti”, chiamiamoli così, e dall’altra a schivare le pastoie (o i vuoti) legislativi tenendo ben presente la differenza fra fare ristorazione professionale e organizzare una cena fra “amici digitali” che magari partecipano alla spesa con una certa cifra. (Home) restaurant vs social eating.
Gli amici di Gnammo ci stanno provando a fare qualcosa di illuminante e in questo dimostrano profonda saggezza. L’obiettivo del loro Codice etico di autoregolamentazione, al quale tutti i membri possono partecipare con proposte e integrazioni, è quello di evitare il muro contro muro – costato per esempio molto caro a UberPop – provando ad anticipare gli ostacoli che un recente parere del ministero dello Sviluppo economico ha già disegnato all’orrizzonte. Anzi, dietro l’angolo. In assenza di una normativa specifica, il documento proponeva di equiparare i pasti organizzati dagli gnammer – così si chiamano i membri della community della piattaforma guidata da Gian Luca Ranno – alla ristorazione tradizionale.
Sono le leggi a dover cambiare
Non basterà per un semplice fatto. Perché il fronte scelto è sacrosanto ma non sufficiente. In questo Paese devono cambiare le leggi. Punto e basta. E spesso neanche questo rischia di evitare i problemi, come dimostra il gran numero di provvedimenti dedicati per esempio alle liberalizzazioni o alla digitalizzazione di fatto inapplicati o incompleti.
Ormai chiedere una ricevuta in un locale è un gesto di resistenza civica
È infatti solo questione di tempo prima che le più diverse, bizzarre e assortite associazioni dei ristoratori – dopo i primi segnali, leggetevi per esempio questo pezzo della Sicilia – passino massicciamente all’attacco forti dei loro decreti, dei loro numerini, dell’improvvisa cura per la salute dei clienti, di un inspiegabile interesse per la qualità e la salubrità degli ingredienti, di una fulminante esperienza senza macchia e senza peccato in termini di parametri d’igiene. Diventeranno esperti di legge, azzeccagarbugli dell’alimento, maestri della legislazione sulla somministrazione di cibi e bevande, richiedendo agli home restaurant ma anche alla tavolata fra semisconosciuti, solo perché pagata in anticipo, il rispetto di norme che la stragrande maggioranza di loro non si è mai sognata di osservare. Basta gettare uno sguardo in una qualsiasi cucina, prima di lasciare il locale dove avete appena cenato. O magari rendersi conto che chiedere una ricevuta è ormai un gesto di resistenza civica.
Serve un ddl sulla sharing economy. E subito
Il fatto è che gli sforzi di autoregolamentazione rischiano di risultare inutili se non sono accompagnati da una spinta verso una legge (o magari verso modifiche o integrazioni) in grado di zittire ogni attore che si ritenga in dovere di aprir bocca e darle fiato anziché abbassare i prezzi del menu, fare lo scontrino e rispettare quelle indicazioni che le Asl locali gli chiedono da anni. Tanto che, più che nell’ambito food, penso siano maturi i tempi affinché qualche deputato fra i più giovani, qualcuno che sappia di cosa stiamo parlando, metta mano a un disegno di legge sulla sharing economy. Purtroppo, e ripeto spesso non è sufficiente, per tentare di tutelare un business in Italia servono leggi chiare e ben scritte. La maggior parte è invece scritta male e (spesso volutamente) poco risolutiva.
Si troverà infatti senza problemi un giudice civile o amministrativo che di quelle regoline scritte con l’aiuto della community e in ottica aperta se ne wikinfischierà altamente, ordinando l’interruzione di un servizio senza andare troppo per il sottile ma rifacendosi – come d’altronde, in punta di diritto, è giusto che sia – alle sole norme dello Stato. Lì dentro devono finire il ride sharing, il social eating, il subaffitto privato per periodi brevi di camere alla AirBnB (Londra l’ha appena liberalizzato) e tutte quelle attività disintermediate che costituiscono, con dovute differenze che un provvedimento dovrebbe chiarire, l’ecosistema della sharing economy.
La sharing economy: quello che ieri facevamo fra noi ma fatto meglio
Perché forse c’è una questione di fondo che non abbiamo ben capito: la sharing economy non è altro che ciò che prima facevamo fra di noi ma fatto meglio. Niente di più, nulla di meno. La cena con gli amici degli amici è sempre esistita, così come la benzina steccata per andare al lavoro e perfino la villetta al mare affittata dalla cugina della zia del collega d’ufficio. Visto che questo fenomeno ha oggi assunto una valenza economica importante – oltre che, ma questa è un’altra faccenda, proposto un modo diverso di consumare – e che tutti questi servizi permettono di tracciare queste contrattazioni fino a ieri nascoste, non si capisce per quale motivo un legislatore maturo non debba prenderne atto e procedere a una loro regolamentazione, sentendo ovviamente tutte le parti in causa. Sollevando questi poveri cristi che vogliono fare innovazione dalle carte etiche di autoregolamentazione e superflue scartoffie del genere. Che fatica.