Privacy weekly | Il guest post di Guido Scorza, avvocato e componente del Collegio del Garante per la Protezione dei dati personali. Un viaggio intorno al mondo su tutela della privacy e digitale
«Governi del mondo, stanchi giganti di carne e di acciaio, io vengo dal Cyberspazio, la nuova dimora della mente. A nome del futuro, chiedo a voi, esseri del passato, di lasciarci soli. Non siete graditi fra di noi. Non avete alcuna sovranità sui luoghi dove ci incontriamo. […] Voi affermate che ci sono problemi fra di noi che hanno necessità di essere risolti da voi. Voi usate questa affermazione come un pretesto per invadere le nostre aree. Molti di questi problemi non esistono. Troveremo i conflitti reali e le cose che non vanno e li affronteremo con i nostri mezzi. Stiamo costruendo il nostro Contratto Sociale. […] Stiamo creando un mondo in cui tutti possano entrare senza privilegi o pregiudizi basati sulla razza, sul potere economico, sulla forza militare o per diritto acquisito. Stiamo creando un mondo in cui ognuno in ogni luogo possa esprimere le sue idee, senza pregiudizio riguardo al fatto che siano strane, senza paura di essere costretto al silenzio o al conformismo.»
Molti l’avranno, probabilmente, riconosciuta. È la dichiarazione di indipendenza del cyberspazio scritta e presentata a Davos nel corso dei lavori del World Economic Forum del 1996 da John Perry Barlow, poeta e attivista statunitense, fondatore della Electronic Frontier Foundation. Parole già cariche di utopia allora ma che oggi suonano sfortunatamente lontanissime dall’ecosistema digitale che conosciamo e nel quale viviamo immersi. Un ecosistema che – girarci attorno è inutile – ha tradito le aspettative dei più, quelle di chi ha contributo a dargli i natali e di chi si è impegnato sin dall’inizio perché fosse la più volte richiamata e auspicata agorà globale, quella piazza pubblica nella quale chiunque avrebbe dovuto poter esercitare tutte le proprie libertà e tutti i propri diritti come mai era stato possibile nella storia dell’umanità.
Si può invertire la rotta?
Non è andata così o, almeno, non sembra essere andata così anche se, non credo il destino sia segnato per sempre e non credo che la “corruzione” di quell’ormai antico progetto ideale sia irreversibile. O, almeno, sono convinto che come autorità e istituzioni sia nostro dovere fare il possibile per invertire la rotta e dare corpo e anima all’utopia di Barlow anche se, al contrario di quanto lui auspicava e chiedeva, intervenendo, con la forza delle regole e della loro applicazione più incisivamente di quanto accaduto sin qui nel governo dello spazio pubblico digitale che potrebbe e dovrebbe davvero essere quel «mondo in cui tutti possono entrare senza privilegi o pregiudizi basati sulla razza, sul potere economico, sulla forza militare o per diritto acquisito…» e «in cui ognuno, in ogni luogo possa esprimere le sue idee, senza pregiudizio riguardo al fatto che siano strane, senza paura di essere costretto al silenzio o al conformismo».
Un nuovo contratto sociale
Un nuovo contratto sociale per una società inclusiva oggi, forse, è possibile. Perché dobbiamo dircelo senza ipocrisie, quello che è andato storto è che quello spazio che Barlow voleva indipendente dai Governi e temeva fosse da questi ultimi occupato è stato, invece, tecnologicamente colonizzato da una manciata di giganti del mercato che a colpi di interfacce, software e algoritmi oggi lo governano al posto dei Parlamenti democraticamente eletti in nome delle sole regole del profitto.
È la tecnologia che si è fatta regolamentazione e che oggi plasma le nostre vite più delle leggi. Intendiamoci non è stata una conquista bellica, non c’è stata nessuna guerra di conquista, nessuna occupazione armata e nessuno è stato fatto prigioniero, o, almeno, non nel significato più tradizionale del termine. Ma, al tempo stesso, non è accaduto per caso. Vi ricordate quando leggevamo le istruzioni degli elettrodomestici prima di accenderli? Quelle del televisore, della lavapiatti, dell’aspirapolvere?
E le istruzioni?
Poi è arrivato lo smartphone, un dispositivo milioni di volte più sofisticato di qualsiasi prodotto di elettronica di consumo mai esistito prima e milioni di volte più potente, lo abbiamo scartato, lo abbiamo acceso e abbiamo iniziato a usarlo. Nessuno di noi ne ha mai letto le istruzioni che, peraltro, frattanto non sono più neppure nella scatola. Credo ci siano solo due spiegazioni possibili. O, nell’ultimo ventennio, l’umanità per un processo di evoluzione darwiniana della specie, è repentinamente diventata più intelligente, cosa che tenderei a escludere o quello che è accaduto è che i produttori di smartphone e di app ci hanno studiato e hanno poi disegnato l’ergonomia dei loro prodotti e delle loro interfacce in maniera tale da abbattere a zero ogni resistenza tra noi e i dispositivi e tra noi e l’universo digitale di cui sono padroni incontrastati.
Hanno deciso loro, disegnando le interfacce, che per condividere un contenuto sui social non fosse necessario pensare e bastasse un istante anziché cinque minuti, hanno deciso loro che per mettere un like a un post bastasse un click e non ne servissero due e che, quindi, ancora una volta, si possa fare a meno di pensare e decidono, naturalmente loro, in maniera più o meno scientifica che certi contenuti che bene sarebbe non arrivassero mai al grande pubblico, abbiano, invece, uno straordinario successo di pubblico. Sono i padroni incontrastati della dieta mediatica globale e grazie alla straordinaria conoscenza acquisita su ciascuno di noi, raccogliendo e analizzando i nostri dati personali, dispongono, oggi, di strumenti di manipolazione globale di massa dei quali nessun soggetto pubblico o privato ha mai sin qui disposto.
Noi siamo – e, in assenza di un cambio di direzione che non può che venire dai Parlamenti, dai Governi e dalle altre Istituzioni democratiche – i nostri figli saranno inesorabilmente quello che loro, i padroni dei mercati tecnologici globali e, oggi, delle fabbriche degli algoritmi, vogliono e vorranno noi e i nostri figli si sia. È da questo sistema che oggi servirebbe dichiarare quell’indipendenza del cyberspazio che Barlow trent’anni fa avrebbe voluto affermare dai Governi e servirebbe farlo per realizzare esattamente il progetto di dar vita a quello spazio pubblico digitale, ormai assorbito per confusione nella nostra esistenza umana, nel quale ciascuno di noi sia effettivamente eguale al suo prossimo e libero di pensare, di dire e di scrivere ciò che ritiene così come di esercitare ogni genere di libertà e di diritto purché nel rispetto del prossimo.
L’auspicio del compianto Rodotà
E, forse, non è un’utopia. Non lo è più perché la forza delle tecnologie delle quali oggi disponiamo e di quelle delle quali disporremo domani, incluse le intelligenze artificiali, se orientata nella giusta direzione, renderebbe possibile ciò che sin qui, probabilmente, è stato impossibile. E lo aveva capito, senza nessuna sorpresa, Stefano Rodotà, quando aveva deciso di affrontare una delle sue ultime fatiche: la dichiarazione dei diritti in Internet. Lì dentro, se solo avessimo la determinazione e la forza di riprendere quel cammino troveremmo tutto quello che ci serve per dar vita a una società digitale più aperta e inclusiva di quella nella quale attualmente viviamo. Basta leggere il preambolo della dichiarazione dei diritti uscito dalla penna di Rodotà per coglierne tutto l’ottimismo e trovare la chiave per riuscire nell’impresa difficile ma non impossibile. «Internet ha contribuito in maniera decisiva a ridefinire lo spazio pubblico e privato, a strutturare i rapporti tra le persone e tra queste e le Istituzioni. Ha cancellato confini e ha costruito modalità nuove di produzione e utilizzazione della conoscenza. Ha ampliato le possibilità di intervento diretto delle persone nella sfera pubblica. Ha modificato l’organizzazione del lavoro. Ha consentito lo sviluppo di una società più aperta e libera. Internet deve essere considerata come una risorsa globale e che risponde al criterio della universalità. Questa Dichiarazione dei diritti in Internet è fondata sul pieno riconoscimento di libertà, eguaglianza, dignità e diversità di ogni persona».
Alla dichiarazione dei diritti di John Perry Barlow, Rodotà ci invitava a rispondere, perseguendo gli stessi obiettivi ma con un metodo completamente diverso, non già chiedendo ai Governi di fare un passo indietro ma, al contrario, chiedendo loro di fare un passo avanti, naturalmente nella direzione giusta, dettando le regole necessarie a garantire uno sviluppo sostenibile dell’ecosistema digitale. Quel passo, oggi, dovremmo provare a farlo tutti insieme, senza nessuna esitazione perché l’ecosistema digitale può davvero diventare quello spazio di libertà, inclusione e eguaglianza che abbiamo a lungo immaginato e, soprattutto, perché in assenza di una decisa inversione di tendenza il destino che abbiamo davanti e al quale consegneremo i nostri figli è inesorabilmente quello di una società di tecno-sudditi, di una tecnocrazia destinata a fagocitare ogni diritto e libertà il cui rispetto e esercizio non risultassero strumentali al perseguimento degli interessi economici degli attuali e verosimilmente futuri oligopolisti dei dati e degli algoritmi.
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