Gli investimenti in startup nel Mezzogiorno sono crollati. I dati Aifi raccontando di una concentrazione a Nord, mentre il Sud affonda. Eppure ci sono almeno 4 motivi che chiedono un’inversione di tendenza
Venerdì è stato pubblicato l’ultimo rapporto Aifi sugli investimenti realizzati in Italia nel 2014. Aifi è l’associazione di categoria che aggrega gli investitori istituzionali nel capitale di società non quotate e pubblica i dati relativi a tutti gli investimenti realizzati nell’anno, estrapolando la quota relativa agli investimenti in startup a elevato potenziale, quelli che tipicamente si definiscono di seed e venture capital.
Per chiarezza metodologica, l’altra fonte di dati sulle operazioni di seed e venture, alimentata dalla Liuc e dalla stessa Aifi, è il venture capital monitor (VEM), che è più facile da leggere perché le singole operazioni sono pubblicate con l’indicazione del nome della target, mentre quelle dell’Aifi sono aggregate. Purtroppo i dati VEM sul 2014 non sono ancora disponibili: li aspettiamo con ansia.
Al sud -70% investimenti
Aifi ci dice che nel 2014 che gli investimenti al sud sono diminuiti del 70% e che su 30 operazioni 13 sono in Campania e 8 in Sardegna. Neanche una in Puglia. Per esperienza diretta mi sento di dire che quelli in Campania sono quasi tutti versamenti di tranche successive nell’ambito di operazioni già contrattualizzate, e aggiungo che alla statistica sul mercato pugliese mancano i finanziamenti erogati dalla CCIAA di Bari con valore assoluto; questo per dire che è proprio difficile fare i conti come si deve in un mondo magmatico come quello del seed/venture, ma questa non è una critica ad Aifi, alla quale anzi va la mia solidarietà.
Com’è come non è, un dato mi arriva come una pugnalata, quel meno settanta per cento al sud. L’anno scorso l’Aifi ha parlato di un “caso” Fondo HT, di una esplosione degli investimenti nel Mezzogiorno per effetto delle circa 60 operazioni fatte da Principia, Vertis e Atlante Mezzogiorno, finanziate al 50% dalla Presidenza del Consiglio attraverso appunto il Fondo HT; questo purtroppo ha smesso di investire il 31 dicembre 2013 e da allora i capitali istituzionali non si sono più visti al sud.
Gli investimenti del FII in startup
Fondo Italiano di Investimento (FII), il più grande investitore istituzionale italiano, partecipato dalle maggiori banche italiane, da Cassa Depositi e Prestiti, Abi, Ministero delle Finanze e Confindustria, ha preso il posto del Fondo HT nel ruolo di braccio armato dello Stato nel campo del capitale di rischio. FII, come il fondo HT, non investe direttamente in startup, ma indirettamente, in fondi di seed e venture, che a loro volta investono in startup; a differenza del Fondo HT, FII ha un team di gestione che forse in Italia non ha eguali, mentre il fondo HT poggiava di fatto su una struttura amministrativa senza track record specifico.
Ad oggi FII ha finanziato 360 Capital, Sofinnova, United Ventures, P101, Stark (Bernabé), Primomiglio (dPixel), Innogest e il progetto Caravella, che “sarà dedicato a co-investimenti al fianco di selezionati business angel”. Il commitment complessivo di queste operazioni è al momento di 100 milioni, già 18 più di quanti ne abbia investiti il fondo HT, e a quanto ci risulta ne dovrebbero arrivare altri 50 entro la fine dell’anno.
L’asse padano degli investimenti in startup
Colpisce il fatto che di tutti i fondi finanziati da FII non ce ne sia uno che abbia la sede a sud della val Padana e, ad eccezione di dPixel, per quanto mi risulta e non ce ne sia uno che abbia mai realizzato un solo investimento al sud.
Lo Stato ha staccato la spina del venture capital dal Mezzogiorno, qualcuno ha deciso che Milano è l’hub di riferimento delle startup e che non ha senso puntare denaro sulla crescita dell’ecosistema a livello locale, tanto meno al Sud.
Con un evidente controsenso, lo Stato investe nelle startup al Sud attraverso il debito, con Smart&Start 2.0 (S&S) e con il Fondo di Garanzia (FdG) di Medio Credito Centrale. Ma S&S di fatto rimborsa spese già sostenute e il FdG garantisce l’80% del credito erogato da una banca alla startup; purtroppo, senza equity la startup non può sostenere spese rimborsabili con S&S ed è troppo rischiosa per una banca che dovrebbe affidarla puntando sul FdG.
La carenza di equity di fatto riduce sensibilmente il potenziale di questi due strumenti, che altrimenti sarebbero utilizzabili per massimizzare la redditività dell’equity e moltiplicarne l’effetto sul finanziamento della crescita della startup.
Ma a sud qualcosa si muove (nonostante tutto)
In assenza dello Stato e degli investitori istituzionali, i meridionali non si danno per vinti; in particolare due categorie di soggetti si stanno impegnando per occupare lo spazio libero: i fondi regionali e gli investitori informali.
In Abruzzo la finanziaria regionale Fi.Ra ha gestito un fondo rotativo di seed capital di 14 milioni denominato StartHope e finanziato con fondi comunitari, che ha realizzato 26 operazioni in 13 mesi (la metà di queste è in fase di perfezionamento). Per inciso, dei sette closing realizzati da StartHope nel 2014 pare che l’Aifi non si sia accorta.
Sviluppo Basilicata ha avviato un fondo di venture capital regionale investendo i proventi di un precedente fondo rotativo gestito dalla stessa società, un brillante esempio di come i fondi pubblici investiti bene aiutano le imprese e tornano in circolo.
Gli investitori informali, soggetti privati con ampie disponibilità (“deep pockets”), stanno progressivamente accarezzando e abbracciando l’opportunità di investire direttamente in startup, puntando sulle opportunità che provengono da incubatori e acceleratori (Tech Hub, Città della Scienza, 012 e 56Cube in Campania, WCap a Catania, Valore Assoluto a Bari, e altri in Calabria, Sicilia e a breve in Basilicata e in Abruzzo), dai fondi regionali citati e dai pochi investimenti realizzati da investitori istituzionali al sud (nel 2014 solo Digital Magics, se non sbaglio).
Questi soggetti si sono accorti che al sud esistono alcune condizioni di opportunità uniche:
- grandi professionalità a un costo “cinese”
- la disponibilità di strumenti finanziari (S&S e FdG) che consentono di massimizzare il rendimento dell’equity
- un ecosistema di professionisti, di incubatori e di percorsi di accelerazione forse ancora acerbi ma con tanta fame di successo
- una qualità della vita che altrove non esiste.
Magari se ne accorgesse anche lo Stato.