Il ruolo fondamentale della user experience: un contenuto che piace viene condiviso e diventa virale. Meglio abbandonare i pop-up, altrimenti gli utenti si affideranno sempre più spesso a sistemi di ad blocking
Il web in continuo cambiamento influenza non solo gli utenti e le loro abitudini, ma anche i brand e i contenuti che propongono. Non tutti riescono ad accorgersene, eppure chi per lavoro si occupa di veicolare un messaggio, pubblicitario o meno, attraverso la rete si è già adeguato a nuove forme di linguaggio molto più social.
Social network e pubblicità
Il binomio azienda e consumatore non basta più. Perché l’avvento dei social network ha profondamente modificato questo rapporto trasformando l’utente del web in un vero operatore di marketing che dal suo profilo condivide e rilancia un determinato messaggio.
Per intenderci, la platea non è più immobile sul divano mentre passa in TV una pubblicità dietro l’altra. Oggi, davanti allo schermo del proprio pc, tablet o smartphone, ognuno di noi ha il potere – almeno in teoria – di condizionare il successo o il fallimento di una campagna pubblicitaria. Ecco perché le brand company guardano con interesse ai social media (Facebook, Instagram, Twitter, YouTube) dove possono rintracciare una clientela più attiva e qualificata che aumenta le possibilità di vendità del prodotto.
Inoltre, condivisioni e visualizzazioni nelle mani di un’azienda si trasformano in un potente strumento di valutazione della campagna pubblicitaria. Permeabilità dell’audience, efficacia del messaggio, impressione positiva o negativa: informazioni che un tempo costavano tempo e risorse, a cui oggi si può accedere in maniera pressoché immediata e gratuita. Per non parlare poi della mole immensa di dati che si possono ricavare profilando in maniera sempre più precisa il proprio target.
Pop-up? Ad blocking!
Ovviamente, il messaggio pubblicitario da rivolgere a un pubblico social è radicalmente diverso da ciò a cui decenni di televisione ci hanno abituato. Parliamo di un contenuto di durata limitata: l’approccio più attuale è quello di Google da non più di 6 secondi. Un contenuto privo di un vero sviluppo narrativo e di storytelling, ma dall’immediato impatto emotivo.
Chissà cosa ne penseranno gli art director dell’online advertising…
Altro aspetto fondamentale è poi l’invasività. Se i primi tempi del web erano costellati di pop-up che apparivano a bordo pagina, oggi non è più così e si tende in direzione opposta. Il messaggio pubblicitario deve trovare l’apprezzamento da parte del pubblico perché solo così verrà condiviso e diventerà virale. Altrimenti la user experience sarà negativa e il messaggio verrà bloccato.
Una tendenza che viene confermata dalle parole di John Montgomery, Vice President per la Brand Safety di GroupM Global. “Abbiamo notato che l’invasività ha portato molti a dotarsi di sistemi per l’ad blocking. Un fatto preoccupante che finisce per danneggiare tutto il settore del digital marketing“.
Brand safety
Ma Montgomery punta poi il dito anche su un altro aspetto importante. Ossia, quello della brand safety. “La presenza di un marchio all’interno di un contenuto inappropriato (violento, pornografico o eticamente scorretto) può generare danni legali, finanziari e, soprattutto, di reputazione lasciando nella memoria dell’utente un’impressione negativa che solo il tempo potrà cancellare”.
Proprio questa riflessione ha spinto GroupM a sostenere CBA (Coalition for Better Ads) che unisce insieme tutti gli attori del settore marketing nella realizzazione di standard comuni che tutelino sia brand che consumatore. Un’esigenza ancora poco sentita in Italia dove, secondo i dati, la brand safety tocca solo il 3,6% delle aziende, in un Paese che per il mercato dell’online advertising vale circa 2,2 miliardi di euro.