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Dal fund raising, al deal flow per la scelta delle società target dell’investimento, fino all’exit dopo una gestione in media decennale: il lungo lavoro dei “capitalisti di ventura”, tra metodo scientifico e voglia di cambiare il mondo
Il Venture Capitalist? Un cacciatore di sogni, ma con metodo. Di venture capital come strumento di finanziamento delle startup si fa un gran parlare, ma il grande pubblico forse conosce poco come realmente si svolge il processo che porta al finanziamento di una nuova idea imprenditoriale al fine di farla crescere in volume e valore per ottenere anche un ritorno. Un obiettivo che probabilmente è il principale, ma non è certamente l’unico.
Proveremo a spiegarlo partendo da una definizione generale. Intanto, secondo Aifi (Associazione italiana venture capital e private equity) il venture capital può essere considerato un sottoinsieme del private equity, focalizzato sull’investimento early stage, ovvero quello che riguarda l’avvio dell’impresa innovativa a elevato potenziale di crescita e sull’expansion financing, finanziamenti necessari a consolidare la crescita di scale-up che si avviano ad exit o a quotazione. Un fondo VC può essere privato, pubblico o misto e deve assumere, per ottenere l’autorizzazione a operare, la forma giuridica di SGR.
Come funziona un Venture Capital: il fundraising
A differenza dei business angel, manager o imprenditori che investono nelle start-up con le proprie risorse individuali, i fondi di Venture Capital raccolgono capitali presso investitori istituzionali, siano essi banche, fondazioni, assicurazioni, fondi pensioni, fondi sovrani. Conferendo una quota al venture capital questi soggetti ne diventano Limited Partners (acquisiscono una quota del fondo) e affiancano i General Partners, che operano come gestori del paniere. La fase di raccolta si conclude al raggiungimento dell’obiettivo fissato dal venture capital che a questo punto può iniziare a operare sul mercato.
La fase operativa: l’investimento
Questa seconda fase è senza dubbio cruciale. Con i soldi in cassa il venture capitalist può iniziare ad analizzare le start-up secondo il proprio focus che definisce sia i settori (FinTech, Biotech, robotica, PropTech, AI); sia la fase di vita in cui si trova la società, sia la size del singolo deal. Comincia il deal flow, ovvero l’acquisizione di proposte di investimento e pitch attraverso diversi canali formali e informali. Team solidi e coesi, un mercato di riferimento ampio e un prodotto con un vantaggio competitivo chiaro sono elementi che possono fare la differenza tra il successo e il fallimento di una nuova impresa. La società target, in cambio del finanziamento, corrisponde al fondo una parte di azioni della società stessa alle quali il più delle volte sono legati diritti operativi, strategici e decisionali. L’investimento comporta l’acquisizione di una partecipazione societaria ma non si limita alla finanza: scopo del venture è contribuire allo sviluppo delle startup anche fornendo competenze e relazioni. Ed è probabilmente questo il maggior valore aggiunto che soggetti come P101 forniscono. Valore aggiunto che si traduce anche in impatto economico: lo ha misurato PriceWaterhouseCoopers calcolando che le società oggetto di investimento sono state caratterizzate da un tasso di crescita dei ricavi pari all’11,7%, contro il 4,1% del campione di riferimento.
La gestione delle partecipazioni
Nel corso della vita dell’investimento in una startup, che ha una durata media di 7-10 anni, il venture capitalist si occupa di apportare dunque non solo finanza ma tutti gli strumenti utili alla crescita dell’azienda. Lo fa fornendo un business plan professionale, apportando consulenze in ambito legale e fiscale; definendo tecnologia, marketing, strategia commerciale e logistica. Collaborando con l’imprenditore all’esecuzione del piano anche attraverso operazioni straordinario di M&A; ridisegnando la governance con l’introduzione anche di figure manageriali professioniste; migliorando la comunicazione e la reputazione sul mercato e rendendo quindi più agevole l’accesso al mercato del credito. Insomma, fa ogni cosa in suo potere per far sì che l’impresa si emancipi e sia in grado di camminare con le sue gambe nel mercato.
Ma si occupa anche della gestione del fondo di investimento e lo fa con le regole tipiche di una Sgr: ovvero prediligendo la diversificazione in termini di geografia, di settori e anche di fase del ciclo di vita in cui si trova la startup, nonché della tipologia btoc o btob.
… e l’exit
L’ultima fase di questo lungo processo è il disinvestimento, tramite il quale la società di gestione rivende le azioni della target al mercato o le restituisce all’impresa stessa dietro corrispettivo in denaro, che può risultare maggiorato dal capital gain ottenuto dall’attività d’investimento. Agli investitori che hanno fornito il proprio finanziamento viene allo stesso modo restituito il denaro maggiorano della plusvalenza ottenuta in proporzione alle quote conferite. L’exit può avvenire attraverso diversi canali: i principali sono la quotazione in Borsa, la cessione a una società industriale che ingloba l’innovazione insita nella startup o agli stessi founder che vogliono riprendere il controllo della propria creatura. Un evento non infrequente nel nostro mondo, dove soldi e cuore (o meglio, elemento impacting) sono due facce della stessa medaglia.