L’Ungheria e la Polonia, le discusse democrature incancrenite in seno all’Ue, tengono in ostaggio i 1.800 miliardi del Recovery Plan
Da un lato c’è il Parlamento europeo, che vuole arrivare dove Commissione e Consiglio, troppo impelagate e impastoiate nei difficili equilibri politici nazionali, non sono arrivati e sostiene che senza il rispetto dei diritti umani fondamentali – che sono poi alla base dei Trattati istitutivi e della possibilità entrare e permanere nella Ue – non ci saranno soldi comunitari per la ricostruzione post pandemica. Sul fronte opposto stazionano il premier ungherese Viktor Orbán, e l’omologo polacco Mateus Morawiecki, che chissà come mai si sentono chiamati in causa, quando Strasburgo ricorda qualcosa così ovvio come l’equazione secondo cui senza democrazia non ci sarà alcun Recovery Fund. Il problema, però, è che con il loro veto l’intera distribuzione degli aiuti si arresta. Per la felicità dei nordici, che quegli aiuti non li hanno mai accettati e per la disperazione dei Paesi mediterranei, che senza rischiano di fallire, a iniziare dall’Italia.
I fatti
Nella riunione del Comitato dei rappresentanti permanenti presso la Ue, gli ambasciatori di Polonia e Ungheria hanno votato contro il pacchetto proposto dalla presidenza tedesca, che comprende il nulla osta sul bilancio pluriennale dell’Unione 2021-27, così come votato al Parlamento europeo. Quindi con anche la clausola sul rispetto dello Stato di diritto come condizione per ottenere i fondi europei.
Per paradosso, due Stati rimasti caparbiamente aggrappati alle loro monete nazionali, mai così deboli (il fiorino ungherese è ormai sotto i 30 centesimi di euro, lo zloty polacco vale 10 centesimi meno), bloccano ora il rilascio di un fiume di miliardi di euro che non ha eguali. E che, stando agli accordi del Consiglio europeo della scorsa estate, inonderebbe anzitutto le casse di queste due sgangherate economie dell’Est.
Per quanto può resistere Orbán?
Come nelle migliori partite a poker, tutto si gioca su chi bleffa meglio. Orbán sa bene di non poter resistere a lungo senza il Recovery Fund. Ha certamente rimesso in sesto l’economia Ungherese abbassando il debito pubblico (è al 70% in rapporto al PIL, praticamente la metà nostra, ma comunque sopra il 60% raccomandato dall’Ue) facendole fare un balzo della ricchezza pro capite, nel 2017, del 4%. Ma non è quel paradiso illustrato dai sovranisti di casa nostra, a iniziare da Matteo Salvini che ne lodava la bassa tassazione industriale e la flat tax. A iniziare dal reddito medio dei lavoratori, fermo a 9 euro l’ora (in Italia, nonostante sia invariato dal 2013, è più di tre volte tanto: 28 euro). La tassazione per le imprese è bassa, è vero: al 9%, ma solo perché il governo è sotto ricatto dei grandi gruppi industriali tedeschi che ne sfruttano biecamente la manifattura a buon mercato, dalla “A” di Audi, alla “O” di Opel, passando per Bmw e Daimler, solo nell’automotive.
Angela Merkel
© Bundesregierung
Orbán, che quando c’è da parlare di diritti tira dritto come un carrarmato, incarcerando magistrati, imbavagliando giornalisti, perseguitando omosessuali e le minoranze etniche, di fronte agli industriali tedeschi che portano lavoro in Ungheria diviene improvvisamente un agnellino ed è molto meno sovranista di quanto non lo si immagini. E qui c’è la sola leva a disposizione dell’Unione europea, guidata di fatto da sempre dalla Germania ma, in questo particolare semestre, anche “di diritto”, visto che Angela Merkel presiede da luglio il Consiglio e con esso il ciclo di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio.
Viktor Orbán e Giuseppe Conte
La sola possibilità di spuntarla, per il dittatore ungherese, è che Francia, Spagna e Italia abbiano bisogno di quei soldi persino prima di lui, a fronte dell’aggravarsi della crisi sanitaria. In quel caso la Germania potrebbe decidere di interrompere il braccio di ferro. Ma il suo è un gioco pericoloso e spregiudicato, perché più si allungano i tempi del Recovery Fund e più si dà modo ai Frugal Four di ripensarci e stracciare l’accordo ingoiato controvoglia a luglio. Noi finora abbiamo sempre visto Mark Rutte come il più intransigente dei nordici: ebbene, bisogna considerare che, rispetto all’opposizione che faticosamente argina, è un grande empatico e che in Olanda a marzo 2021 si voterà e l’ultra destra potrebbe soppiantarlo, soprattutto a seconda di come il suo Parlamento gestirà la partita del Recovery Fund. Lui lo sa bene e per vincere in casa potrebbe essere tentato di fare il cattivo fuori. Anche più di Orbán…