Una delle startup più interessanti della scena musicale è fallita. Nonostante round di investimento milionari e un management di prim’ordine. Cosa ci insegna il caso Crowdmix sulla difficoltà di chi fa innovazione nella musica
Crowdmix doveva diventare un unicorno da 1 miliardo di dollari, prospettava tassi di crescita più alti degli inizi di Twitter e Facebook, aveva raccolto 14 milioni di sterline di finanziamenti. Invece la storia di questa app mai lanciata che doveva essere un po’ streaming musicale e un po’ social network si è chiusa l’11 luglio scorso con due uomini in giacca e cravatta inviati dallo studio legale David Rubin & Partners, ramo insolvenze e fallimenti, che annunciavano agli 80 dipendenti della sede di Londra che Crowdmix aveva portato i libri in tribunale, che l’ultimo mese di stipendi non sarebbe stato pagato e che potevano non presentarsi più al lavoro.
La festa da 200 mila sterline ad Amsterdam nel 2015
Come spesso succede in questi casi, il ciclo di decollo, ascesa e disastro di Crowdmix è stato molto breve. Meno di un anno fa, aveva speso una cifra 100mila e 200mila sterline per una sontuosa festa ad Amsterdam, per la quale aveva chiamato a suonare i Faithless e altri nomi della scena dance e grime e pagato la trasferta ad almeno 20 dipendenti per esserci. Era ottobre, l’app non era stata ancora lanciata, Crowdmix non aveva ancora solo generato un pound di ricavi, ma i suoi dipendenti, anche junior, volavano tra Heathrow e Los Angeles per le riunioni, l’ufficio di Venice Beach era allo stesso indirizzo di Snapchat ed era stato arredato dagli interior designer di Molori (che in portfolio hanno anche yacht da 145 piedi) e in quello di Londra la reception era a forma di ghetto blaster.
Un mix di Hype e inefficienza condannano Crowdmix
Per Crowdmix tutti i dettagli sembravano essere al posto giusto, compreso un finanziatore di alto profilo come Nick Candy dei fratelli Candy, patrimonio valutato 9 miliardi di sterline e investimenti in immobili di lusso. Candy voleva qualcosa di più sexy dei condo di lusso One Hyde Park e NoHo Square e così aveva puntato su Crowdmix. Business Insider ha pubblicato un lungo articolo sul disastro Crowdmix che può essere letto in controluce anche come un racconto horror su come le startup muoiano di hype e inefficienza. Secondo questo reportage, Candy appariva regolarmente in sede per dare discorsi motivazionali. Probabilmente, aveva visto molte volte The Social Network e aveva deciso di essere il Justin Timberlake della situazione.
Una classifica in tempo reale dei brani più ascoltati
Il problema di Crowdmix era che nessuno dei due fondatori era Mark Zuckerberg. Il Ceo, Ian Roberts, veniva da un’azienda che abilitava grandi spazi come gli stadi al Wi-Fi. Era stata sua l’idea di un app che potesse creare classifiche musicali in tempo reale. Il suo socio Gareth Ingham portava l’esperienza musicale, è un esperto di marketing che aveva lavorato direttamente per Dj e musicisti. L’app che avevano in mente doveva permettere di ascoltare in streaming le canzoni dalle classifiche create dagli utenti, commentarle e condividerle, proprio come in un social network. Un prodotto da decine di milioni di utenti, una gigantesca conversazione musicale collettiva dove sarebbero stati proprio musicisti e popstar a condividere la musica che amavano in quel momento. L’idea era buona e così cominciarono ad arrivare gli investitori, tra i quali Nick Candy: a loro Roberts prometteva tabelle con una valutazione da 1 miliardo di dollari entro il primo anno di operazioni.
160 dipendenti e un management di primo livello
In questa fase di crescita, Crowdmix cambia tre sedi e arriva a 160 dipendenti, tra cui nomi molto in vista dell’industria musicale, con la quale avere buoni contatti era fondamentale per far funzionare l’impresa. Arrivano Rob Wells, ex responsabile digital di Universal, e Dick Wingate, ex Columbia, Epic e Polygram. Cominciano anche i rapporti informali con le star della musica, secondo i materiali interni diffusi da Business Insider vengono contattati Jay-Z, Rihanna, Kanye West, gli Strokes e George Michael. È il momento in cui conti e proiezioni di Crowdmix diventano più allegri e arbitrari: quando una celebrità mostrava anche solo un vago interesse nel partecipare all’app, l’azienda aggiungeva una parte della sua base di fan sui social network alla potenziale userbase di Crowdmix: «I dipendenti scherzavano sul fatto che in questo modo il mercato di riferimento dell’app sarebbe stato più ampio dell’intera popolazione terrestre».
Le spese folli del 2016
Con l’inizio del 2016, l’app non è ancora stata ancora lanciata, nemmeno in Beta, ma questa fase di ottimismo si trasforma in una serie di spese che mandano i costi di gestione di Crowdmix fuori controllo: non solo feste e viaggi, ma anche la presenza ai Brit Awards e al Cannes Lions Festival, la produzione di documentario sulla scena grime, l’incarico a un’agenzia di comunicazione da 60mila sterline al mese e addirittura l’acquisto di costosi lampadari. A questo punto, Crowdmix spendeva una cifra tra 1 e 2 milioni di sterline al mese, e ancora non aveva ricavi di nessun genere. Tutti parlavano di questa Crowdmix, ma nessuno l’aveva mai vista. Ogni volta che i fondatori avevano qualche idea su una nuova funzione dell’app, nuove risorse venivano allocate o spostate e il lancio veniva posticipato. In una dichiarazione pubblica post-fallimento, Gareth Ingham ha scritto: «Crowdmix stava provando a diventare un business globale, avevamo gli investitori, abbiamo assunto i migliori del nostro ramo, costruito un grande prodotto, avevano bisogno di eventi di alto profilo per farci conoscere, abbiamo solo agito in linea con le nostre ambizioni».
Un problema di prodotto e di business model. I licenziamenti
Ma in linea con le ambizioni non sono stati né il prodotto né il business model. Lo scorso aprile sono cominciati i licenziamenti (8% dello staff) e i tagli ai fornitori, un mese dopo l’app è stata finalmente fatta provare solo su invito a Dj, musicisti e influencer. Su Glassdoor, un sito dove in forma anonima, dipendenti ed ex dipendenti possono recensire le proprie aziende, si potevano sentire gli scricchioli del progetto: «Crowdmix è uno scherzo, questa gente non sa quello che sta facendo», si leggeva. A maggio gli stipendi arrivano in ritardo di 10 giorni e il CEO e co-fondatore, Ian Roberts lascia l’azienda senza una parola di commiato. Gli stipendi di giugno non sono mai arrivati e l’11 luglio si sono presentati in azienda i curatori fallimentari. Game over. Crowdmix in questo momento è di fatto in vendita, anche se non è chiaro di chi si vorrà accollare i milioni di sterline di debiti per rilanciare un’app il cui sviluppo è completo ma il cui successo è sempre stato solo sulla carta.
La storia di Crowdmix è piena di cattive notizie sia per la scena tech di Londra, già in fase di grande pessimismo dopo la Brexit che per il mondo delle startup legate alla musica digitale. Negli ultimi mesi, Crowdmix si è aggiunta ai fallimenti d Rdio e Guvera. In un post scritto prima della fine di Crowdmix, il venture capitalist americano David Pakman, partner di Venrock, aveva analizzato la storia di quasi vent’anni di startup musicali e aveva trovato un cimitero. Di 175 finanziate dal venture capital dal 1997 ad oggi, solo 7 avevano assicurato un ritorno di capitale consistente, il 4% del totale. «In queste condizioni, solo i giganti come Amazon, Apple, YouTube e, in misura minore, Spotify e Pandora, possono resistere e fare affari nella musica digitale e spesso solo perché riescono a compensare le perdite con la musica con i ricavi altissimi negli altri business di riferimento».
Perché falliscono le startup musicali
Se la storia di Crowdmix è soprattutto un esempio di cattiva gestione, il fallimento di così tante startup musicali, secondo Pakman, è da attribuire alle major musicali. Invece di permettere la nascita di un ecosistema di innovazione, hanno soffocato a colpi di royalty altissime le realtà con più idee ma meno pronte finanziariamente. Senza i diritti per lo streaming musicale, le startup muoiono, «ma invece di renderli accessibili, le major musicali li hanno alzati sempre di più, uccidendo le aziende, impedendo la nascita di un ecosistema sano». Il paradosso, secondo l’analisi di Pakman, è proprio il destino di Spotify. «È ancora poco redditizio, ha margini troppo bassi anche a 30 milioni di iscritti, passa il 70% di quello che incassa all’industria musicale, per la quale sta comunque pagando troppo poco».