Un documento anonimo circola tra i dipendenti del campus di Mountain View. Mettendo in dubbio le politiche aziendali che puntano a rendere più aperto e inclusivo il posto di lavoro. Una storia che finisce con un licenziamento
Google ha fatto parlare di sé. Non per qualche strabiliante tecnologia, o per la sua tecnologia (di recente dismessa) che leggeva la posta altrui per migliorare la sua pubblicità, o per qualche interpretazione del sistema di tassazione europeo (cosa che a molti stati europei non va giù). Oggi Google parla di quanto l’azienda sia politicamente corretta poiché lascia libertà di espressione a un non ben identificato ingegnere che annovera tra le sue fila: salvo poi decidere di licenziarlo non appena si è scoperta la sua identità, tale James Damore.
James ha scritto un memo che dibatte la differenza tra uomo e donna, nel mondo del lavoro, e di base contesta una delle più sante regole del mondo corporativo americano: essere politicamente corretti, specialmente verso le minoranze e le realtà che, politicamente corretto parlando, vengono identificate come diversity (diversità). Parole che non sono piaciute ai piani alti di Mountain View: è intervenuto lo stesso CEO Sundar Pichai per affermare che “suggerire che un gruppo di colleghi abbia tratti che li rendano biologicamente meno adatti al lavoro è offensivo e non è ok”.
Ora una parte del documento dello scandalo viene analizzato e mostrato in questo articolo di Gizmondo, il resto si trova in Rete. Il documento, riassumendo brutalmente, sembra essere stato scritto da un maschio alfa, probabilmente caucasico. Non escluderei repubblicano (dati i riferimenti negativi al “left” che negli USA di solito si identifica con i democratici). E in questo documento, James Damore mette in dubbio l’approccio aziendale tenuto da Google per quanto attiene le politiche di parità e inclusione per tutte quelle categorie di dipendenti che, dati alla mano, ricevono un trattamento diverso: per possibilità di carriera, stipendio, mansioni e così via.
Il politicamente corretto
Non avendo una formazione tecnica non posso esprimermi se un programmatore donna sia più abile di uno uomo. In questi mesi, come riportano differenti fonti, Google è sotto inchiesta per politiche discriminatorie e in generale dopo gli scandali di Uber (che parecchio avevano a che fare con una cultura aziendale troppo maschile) Silicon Valley è fortemente scossa da una sorta di senso di colpa. Dalle critiche aperte alla cosiddetta Bro corporation a quelle sulle spinose questioni relative al genere.
La domanda che mi pongo è quanto sia corretto il politicamente corretto. Prima degli anni 90, come riporta il britannico Guardian, il concetto di politicamente corretto era praticamente inesistente nella dialettica americana. Lo standard corporativo americano era di tipo patriarcale, stile maschio alfa dominante. In seguito il politicamente corretto (un eterogeno gruppo di concetti che, partendo dall’evitare discriminazioni razziali, sessuali religiose, etniche, sessuali, evolve nelle successive regolamentazioni sociale e financo legali) ha fatto strada.
Tramite le filiali delle stesse multinazionali il concetto è sinuosamente penetrato nel dialogare collettivo occidentale (si badi bene: occidentale). Temi del genere ancora oggi faticano ad affermarsi nel mondo orientale. Con alcune approssimazioni si potrebbe dire che i principi del politicamente corretto sono famosi e conosciuti ovunque ma vengono effettivamente applicati (con larghe lacune) nel blocco Nafta (sul Messico ho dei dubbi), Unione Europea, Oceania (più probabilmente in Australia). Se includiamo i dipendenti e associati delle organizzazioni governative (ONU e associati) si può ipotizzare che il politicamente corretto sia diffuso su circa 2, massimo 3 miliardi di persone. Nel mondo siamo circa 8 miliardi.
Il quadro scientifico
Torniamo a Google. Damore sostiene che uomini e donne siano differenti. Biologicamente parlando è ineccepibile. Fallisce tuttavia nell’indicare come questa diversità possa o meno essere positiva (o negativa) in ambito corporativo, soprattutto con basi scientifiche.
L’adagio classico del politicamente corretto sostiene che tutti hanno diritto ad avere le stesse opportunità. Personalmente convengo che ognuno di noi abbia diritto ad avere le stesse opportunità, ma c’è da dire che ognuno di noi è, per nascita e sviluppo sociale che ne segue, portato a uno o più settori di interesse che, nel tempo, potrebbero configurarsi come settori lavorativi. Da una spiccata manualità al calcolo astratto. E questo vale per entrambi i sessi.
Venendo nello specifico del confronto uomo-donna, ho pensato di analizzare uno studio piuttosto rilevante della Cornell University. L’analisi non discute il tema ingegneristico, come fa il dipendente Google, ma un tema forse di più ampia portata: “La creatività dalle coercizioni? Come il PC influenza la creatività nei gruppi di lavoro misti” (Creativity from Constraint? How Political Correctness In uences Creativity in Mixed-Sex Work Groups).
L’analisi è piuttosto lunga ma un tema ricorre sotto varie forme (citerò questo passaggio come esemplificativo): “I gruppi di lavoro misti possono fallire nel capitalizzare il loro potenziale creativo poiché i singoli membri si trovano inibiti dall’esprimere idee innovative temendo le reazioni dell’altro sesso. (e.g., Plant and Devine, 2003). In accordo con la teoria della riduzione dell’incertezza, quando le persone si incontrano sono primariamente preoccupati di assicurare la certezza di comportamento e pensieri dei propri partner. (Berger and Calabrese, 1975). L’incertezza si riferisce al senso soggettivo di una persona su un numero di differenti previsioni disponibili quando pensano al comportamento passato e (eventualmente) futuro del partner (Bradac, 2001)”
E il saggio continua: “gli uomini, che sono stati per molti anni il gruppo dominante nella forza lavoro americana, sono molto propensi a preoccuparsi di apparire sessisti a causa dei rischi sociali o persino legali in relazione allo storico scenario di sessismo sul lavoro (e.g. Burgess and Borgida, 1999; Wharton and Baron, 1987). Come risultato gli uomini possono essere atterriti all’idea di condividere idee che le loro colleghe femminili possano trovare anche solo vagamente offensive (e.g. Klonis, Plant, and Devine, 2005)”.
Tornando ad un approccio più biologico, anche allo Stanford Medicine e allo Scientific American sostengono che il cervello di uomini e donne opera in modo differente. Questo è bastante per discutere una politica corporativa differente, meno inclusiva? Forse sarebbe bene, come sostiene anche Harvard Business Review, abbandonare un concetto di “quote rosa” e focalizzarsi su aspetti meno politicamente corretti ma efficaci come la meritocrazia.
Più meritocrazia per tutti
Qual è la visione del politicamente corretto che le multinazionali americane hanno sparso per il mondo? Un approccio meritocratico, dove la parità (anche in termini di trattamento economico) sia data dai risultati e non dall’origine etnica, razziale, sessuale sarebbe di sicuro più interessante e maggiormente competitiva.
Per equilibrare la discussione ho pensato di chiamare in causa i britannici, padri putativi della cultura americana WASP (White, Anglo-Saxon Protestant, in pratica il famoso maschio alfa medio) che ha creato, nel tempo, quella visione da cui è nato il politicamente corretto. Il timore di offendere le minoranze ha distrutto il dibattito? Cosi si domandava il Telegraph a febbraio 2017, ben prima della uscita dell’ingegnere di Google.
Il confronto è alla base della crescita, appiattire il confronto, con moral suasion o leggi e codici corporativi è l’antitesi della crescita. L’ingegnere di Google non sarà il massimo esperto di sociologia, ma ha sollevato una questione. Possono tante minoranze, o diversità, essere coloro che decidono su una maggioranza?
Pichai, nella sua lettera ai dipendenti, ribadisce che il codice di condotta aziendale impone a “qualunque Googler di fare del proprio meglio per creare un ambiente di lavoro privo di maltrattamenti, intimidazioni, pregiudizi e discriminazioni illegali”. Il punto di vista di Damore, a questo punto sconfessato dall’azienda, è che invece non siamo tutti uguali e occorre che se ne prenda atto nel definire le politiche corporative su parità e inclusione.
La preoccupazione di Damore, nel suo memorandum anonimo, era che si ribaltasse la status quo per creare un altro status quo peggiore del precedente: in nome della diversità, si finisse per concedere privilegi eccessivi ad alcune categorie di dipendenti per garantirne la parità, finendo per emarginare culturalmente la maggioranza. Spersonalizzare il principio di uguaglianza per farlo rispondere a criteri matematici che fissano quote e percentuali di partecipazione. Ora Google ha chiarito che la linea aziendale è differente: per evitare che i soliti noti persistano nella loro rendita di posizione, occorre insistere nella discussione su questi temi (Pichai ha annunciato che rimanderà le sue vacanze per tenere una discussione pubblica coi dipendenti sul tema). Ma non tutte le argomentazioni sono ugualmente valide.