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Gli entusiasti del copyright sono una categoria strana. Convinta di vivere in una realtà più simile a quella degli anni ’60. E che ormai non c’è più
Gli entusiasti del copyright, quelli che Lawrence Lessig definiva gli “estremisti della proprietà intellettuale”, sono una categoria di persone piuttosto strana. Sono pochi, intanto: gestiscono grandi macchine da soldi che hanno prodotto ricchezza a ciclo continuo per decenni e che oggi faticano un po’. Non sarà difficile riconoscerli: sono quelli che continuano a guardarsi intorno per individuare chi, fra i molti pretendenti, sia lì nei pressi a cercare di sfilargli un po’ del loro vecchio potere.
Sono una categoria particolare anche per un’altra ragione: perché a differenza dei conservatori, o dei monarchici, degli adoratori di Lenin o di una delle numerose altre categorie di persone che aspirano a restituire al mondo l’antico splendore precedente, loro vorrebbero fare perfino qualcosa di più.
Non si accontentano di tornare ai bei tempi andati ma sognano un futuro nel quale i bei tempi andati ritornano dentro una trionfale amplificazione. Quindi se il copyright dura 75 anni dalla morte dell’autore gli entusiasti del copyright si batteranno per estenderlo a 100, se una vecchietta è stata condannata perché piratava musica reggae (reato fortunatamente estinto dopo la nascita di Spotify) si augureranno in coro che 100 vecchiette vengano condannate: e così via. Non sono dei mostri: sono persone come noi, che combattano una vecchia battaglia per semplice inerzia o per personale interesse senza guardarsi mai attorno. Per loro 1965 o 2018 non fa alcuna differenza.
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Così è stato molto divertente in questi giorni leggere prima i loro moniti sulla libertà di stampa in pericolo e poi il tripudio per la cultura e la libertà messe finalmente in salvo dal Parlamento Europeo che ha approvato la loro ultima “extension”. Come se ai cattivissimi nuovi oligarchi di Internet, i vari Google, Facebook e Amazon, di questi signori del 1965 gliene importasse qualcosa.