Il Paese, la cultura, le responsabilità militari, i primi venture capital: una delle figure di spicco dell’ecosistema dell’innovazione di Tel Aviv spiega perché Israele è diventata una startup nation
«Essere un migrante significa essere un imprenditore». E l’imprenditoria ha bisogno di studio, ostinazione, networking. Nel caso di Israele, una parte di primo piano la fanno anche la formazione militare e i finanziamenti pubblici. Abbiamo chiesto a Merav Rotem Naaman, figura di spicco dell’ecosistema dell’innovazione di Tel Aviv, di spiegarci le caratteristiche che fanno dello Stato ebraico una startup nation. Naaman, specializzata nel trovare nuove startup e grande sostenitrice dell’imprenditoria giovanile, è a capo di Nautilus, la società d’investimenti e scouting del fondo vc Aol, e di Verizon Ventures Israel.
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Come ha fatto Israele a diventare una startup nation?
«Siamo un piccolo Paese, con poco più di 8 milioni di persone. Praticamente un’isola, sempre in stato di guerra. Non abbiamo risorse naturali, il 60% del territorio è deserto. Ciò che abbiamo, invece, è una lunga storia di fiducia nell’istruzione. Penso che ci fosse già all’epoca della fondazione dello Stato, quando si trattava di tirare fuori qualcosa dal nulla. Essere migrante significa essere un imprenditore, perché devi ri-costruire la tua vita. E gli ebrei sono sempre stati cacciati da un paese all’altro. I miei nonni sono fuggiti dall’Olocausto. Non avevano capitali, non avevano nulla. E non erano diversi dalla maggior parte della gente di qui all’epoca: tanti migranti, e tanti imprenditori. È qualcosa che si è infiltrato nella nostra cultura».
La cultura come strategia di sopravvivenza, quindi.
«Non solo. Un’altra caratteristica nel nostro modo di vivere è l’essere un po’…rudi. È ciò che si dice essere hutzpah [termine ebraico usato anche dagli americani, con grafia chutzpah, ndr]. È qualcosa tra l’essere audaci e …beh, ogni tanto passiamo la linea e diventiamo soltanto scortesi (ride). L’idea è che se vuoi qualcosa te la vai a prendere. E dire sempre ciò che si pensa, anche quando non sarebbe il momento giusto, senza vergogna di mettere in discussione l’autorità. Perfino nell’esercito, siamo incoraggiati a mettere in discussione l’autorità. I soldati possono chiamare i comandanti con il loro nome, e contestare quello che dice lo stato maggiore. E va bene così – sono spronati a farlo. Anche questo ci ha ispirato a essere imprenditori, a osare per realizzare».
L’esercito ha avuto anche un ruolo nello sviluppo tecnologico, come negli Stati Uniti?
«Sì. Prima di tutto, dall’esercito viene fuori tecnologia, ad esempio dalla famosa unità tecnologica 8200 – intelligence technology. Un sacco di gente che ha poi fondato imprese tecnologiche di successo in Israele viene da lì. Pensate a Checkpoint, l’azienda che si è imposta con il firewall. L’hanno sviluppato nell’esercito e poi ci hanno fatto un’azienda. Ma molti che ora stanno sviluppando aziende di cybersecurity, computer vision, intelligenza artificiale, deep learning, machine learning, sono partiti da lì, con le cose che hanno imparato là…è una delle migliori università tech del mondo! Mentre servono nell’unità vengono addestrati e hanno una vera esperienza, quindi escono da lì formati, in un certo senso».
C’è anche un risvolto sociale?
«L’esercito gioca un enorme ruolo nell’ambiente sociale in Israele: il servizio militare è obbligatorio per uomini e donne. Ed è anche un modo per colmare il gap economico. Chi è nato in un’area povera del Paese può svolgere il servizio accanto a chi viene da una famiglia ricca. Lì sono uguali. E si crea un network. Ne hai bisogno – basta pensare alla Silicon Valley. E nell’esercito puoi farlo, con agganci che non potresti avere normalmente. E soprattutto, hai questi ragazzi di 18 anni a cui vengono date responsabilità fortissime: questo crea fiducia in se stessi, pensi di poter fare tutto».
E poi si passa dalle responsabilità militari a quelle imprenditoriali.
«C’è la mentalità “get stuff done”. Dobbiamo portare a termine il lavoro. Non importa come, basta che concludi. Poi certo ci vuole denaro e l’abilità di fare exit, perché senza il denaro non arriverà alle startup».
Puoi darci qualche dato per capire le dimensioni della startup nation?
«Oggi ci sono almeno 300 forme di cooperazione internazionale che hanno un r&d center in Israele. E interagiscono con le startup, investendo, comprando o entrambe le cose, fondando acceleratori, avendo uno startup program, o facendo un hackathon o una competizione. Nel 2015 abbiamo avuto 9 miliardi di dollari in exit, quasi 5 miliardi investiti in startup. Le startup sono in Israele 4800: un numero folle, per un paese di 8 milioni di abitanti! Poi ci vuole il mondo accademico: abbiamo alcune delle università più avanzate del mondo. E poi hai bisogno dei soldi. Che ora non sono un problema».
Che ruolo ha giocato lo Stato in questa crescita?
«Un grosso ruolo all’inizio. Negli anni Settanta il governo ha creato i primi venture capital. Hanno permesso a compagnie private di avere denaro pubblico e investirlo in startup: loro non sapevano come farlo. Investire in startup non è come investire in niente altro, se lo fai lo devi fare nel modo giusto, altrimenti uccidi l’azienda. Un’altra fase c’è stata negli anni ’90, quando abbiamo avuto un milione di immigrati dall’Urss – erano un quarto della popolazione! È stata dura, per un piccolo Paese in stato di guerra. Ma il governo fece qualcosa di molto interessante. Ci si accorse che molti di loro avevano una istruzione tecnologica, così hanno costruito gli incubatori per togliere dalla strada molti ingegneri. Cominciò a costruirsi il grande potere ingegneristico che abbiamo in Israele. Concluso questo processo, gli incubatori hanno avuto un nuovo compito: attirare denaro da fuori».
In che modo?
«Si scelse una formula: investire per l’85% con denaro pubblico, lasciando il 15% a investitori e compagnie globali, che poi si prendono il 100% dell’equity. Il governo ha il suo denaro indietro solo se la startup ha successo. La royalty è 3 o 4 volte l’investimento iniziale. Il pubblico si prende gran parte del rischio, e questo ha incoraggiato gli investimenti stranieri. Poi ci sono i vari programmi favorevoli di tassazione per aprire r&d qui…insomma lo Stato ha fatto molto per attirare il denaro estero. E ora si è formato un ciclo: si investe in Israele perché c’è modo di fare una exit, e inoltre si crea una forza lavoro ben qualificata. Gli ingegneri che hanno iniziato in grande compagnie globali come Facebook, Intel, Microsoft, con processi top of the line, nutrono le startup dell’ecosistema».
Le startup in Israele lavorano per i mercati esteri. Non c’è la tentazione, per gli startup, una volta diventate grandi, di andare fuori? Ad esempio trasferendosi in Silicon Valley.
«Vuoi che tornino perché probabilmente fondano un’altra azienda, oppure investono, o fanno da mentors. Otto anni fa, per i 60 anni di Israele, fu lanciato un programma per chi tornava: 10 anni di esenzione sulle tasse sul reddito che avevano fuori Israele. Molti sono tornati così. Le tasse in Israele sono molto alte. Ma gli israeliani all’estero di solito vogliono stare solo qualche anno e poi tornare. Forse perché siamo una nazione giovane, e c’è l’ideale di costruire il proprio posto qui… Ah, e un’ultima cosa».
Prego.
«Il fallimento significa esperienza in Israele. Fallire è una gran cosa. Se hai fallito, voglio investire in te. Esagero un poco, ma in generale, fallimento è visto come esperienza e non come una scommessa persa. Se hai corso un rischio vuol dire che ne hai la propensione. Hai probabilmente imparato qualcosa dai tuoi errori e potrai essere un buon imprenditore».