Fin qui nulla di strano. Anche Oracle e Dell hanno intrapreso un percorso di delocalizzazione simile. E spostare in India i propri stabilimenti ha, inoltre, permesso a IBM di mantenere bassi i costi aziendali. Il caso in questione è però particolare. Perché, per la prima volta, si scopre una società americana avere più dipendenti in un Paese straniero che non ne gli Stati Uniti.
Il capitale umano
“IBM India è nel vero senso della parola un microcosmo dell’azienda IBM”, ha raccontato Vanitha Narayanan, direttrice che segue l’andamento delle operazioni nella terra del Gange per il gigante a stelle e strisce. Dichiarazione rilasciata durante una visita al campus IBM di Bangalore, uno dei luoghi che sfornano ogni anno nuovi tecnici e progettisti pronti per essere assunti. Servizi di consulenza, scrittura software e monitoraggio sistemi informatici per enti governativi, banche e aziende telefoniche. Non esiste settore dell’azienda che non veda la presenza dei dipendenti indiani.
La verità, come al solito, ha più di una faccia. Da un lato è innegabile che l’India possieda un patrimonio umano dalle immense possibilità che aspetta soltanto di essere valorizzato e che ovviamente attira l’attenzione delle grandi aziende. Dall’altro, secondo stime fatte dalla società di ricerche Glassdoor, lo stipendio medio di un dipendente indiano è dal 50 fino all’80% più basso di quello del rispettivo collega americano.
Una caccia al lavoro che negli ultimi anni ha raggiunto anche gli Stati Uniti sotto forma di visti temporanei concessi ai lavoratori del settore tecnologico. Tanto da attirare le ire del presidente Donald Trump che ad aprile ha firmato un provvedimento per arginare il fenomeno.
Una storia che risale al 1951
Ma il rapporto che lega IBM all’India è molto più antico. Il colosso americano aprì nel 1951 le sue prime sedi nel Paese: una a Delhi e l’altra a Mumbai. Poi nel 1978 gli attriti con l’allora governo in carica, ostile alle proprietà straniere, costrinsero l’azienda ad andarsene. Una piccola parentesi durata quindici anni.
Samuel J. Palmisano, ex presidente di IBM, insieme all’undicesimo presidente dell’India, APJ Abdul Kalam
Nel 1993 l’azienda informatica ha fatto ritorno grazie a una joint venture con il gruppo industriale Tata. L’obiettivo era collaborare insieme alla realizzazione di un personal computer per il mercato indiano, ma IBM si è smarcata presto dall’accordo. Ha iniziato aprendo una propria filiale indiana e nel 2004 ha portato a casa un contratto decennale (valore di 750 milioni di dollari) con Bharti Airtel, una delle prinicipali compagnie telefoniche del Paese.
Oggi l’azienda è presente in quasi tutte le aree cittadine: Pune, Kolkata, Hyderabad. Persino un laboratorio di progettazione a Bangalore dove vengono realizzate app aziendali per iPhone e iPad. Ma, oltre che il presente, l’India rappresenta per IBM anche il futuro. La porta d’accesso perfetta per raggiungere i clienti del domani: quei miliardi di persone povere che la rivoluzione digitale non ha ancora raggiunto.