Per il Ceo dell’incubatore fiorentino Nana Bianca, con il 2016 si chiude un anno nel quale tanto è stato fatto, ma non basta. Le buone idee ci sono, mancano i soldi. Cosa serve per decollare? Più coraggio dei venture capital e una grossa exit, di quelle «col botto»
Parlando del futuro con Alessandro Sordi, co-founder e Ceo di Nana Bianca, si percepisce immediatamente una vitalità imprenditoriale temperata da un ottimismo moderato, posizionandosi a metà strada tra passione e realtà. In due parole: saggezza ed esperienza. Nana Bianca è l’incubatore fiorentino affermato e certificato, che opera nell’ambito digitale per supportare startup basate su modelli di business innovativi. Gli ambiti di interesse sono prevalentemente le tecnologie collegate all’advertising e al marketing digitale, i servizi, le applicazioni mobile e l’eCommerce.
Con lui abbiamo riepilogato un bilancio, tracciato una linea di separazione tra il passato e il futuro dell’ecosistema delle startup italiane: tra vocazione locale e internalizzazione. Tra soldi e sogni. Tra fatti e parole.
Il punto di partenza è la Toscana, che storicamente riassume nell’innovazione la sua vocazione: dal dirompente Rinascimento fiorentino arrivando fino al memorabile 30 aprile 1986, quando l’Italia si collegò per la prima volta alla rete grazie ai tecnici “visionari” del Centro nazionale di calcolo elettronico di Pisa. Da lì lanciarono il primo segnale Internet verso Roaring Creek in Pennsylvania, spedito grazie ai satelliti del Telespazio in Abruzzo.
Il 2016 di Nana Bianca (e dell’ecosistema toscano)
Sordi, partiamo da voi. Il 2016 che anno è stato per Nana Bianca?
«Un bilancio positivo, di conferme, raccogliendo tanti buoni risultati figli del lavoro dell’anno precedente. Mettiamo assieme talenti con lo scopo di trasformare buone idee sul digitale, in vere e proprie aziende, e quest’anno ci siamo riusciti. Non cerchiamo per forza unicorni italiani, ma tante buone PMI digitali che trasformino i modelli di business di questo paese nel prossimo futuro. Abbiamo 26 startup, tutte fatturano e molte sono al breakeven. Alcune di queste fatturano 1 milione di euro. Inoltre nel 2016 siamo andati a pieno regime con la nuova sede, di 1500 metri quadrati. Un bellissimo spazio per lavorare».
Lavoro ma anche tanta formazione: sempre nel 2016 è partito il progetto Nana School. Di cosa si tratta?
«E’ un progetto al quale teniamo molto: si tratta di un corso rivolto a programmatori, maker, software guru che abbiano dimestichezza con la programmazione in Python, Java, HTML. Un percorso formativo intenso di quattro mesi, all’insegna del learning by doing, con laboratori e lezioni frontali, tenuto da un pool di docenti e professionisti di grande valore; il percorso terminerà con uno stage retribuito».
Com’è nata l’idea?
«Un’idea che nasce da un’urgenza: quella di trovare programmatori bravi che purtroppo le università italiane oggi giorno non formano. Un programmatore in PHP anche molto preparato difficilmente riesce a convertirsi nei nuovi framework, perciò vogliamo offrire questa bella opportunità a tanti ragazzi intraprendenti, che saranno senz’altro premiati dal mercato».
In che relazione si pone l’iniziativa col territorio?
«Tra i nostri scopi c’è proprio quello di concorrere a rivitalizzare il tessuto produttivo territoriale. In fondo tutte le startup hanno una vocazione internazionale, giustamente il loro sguardo è rivolto al mondo, ma il loro legame col territorio non viene mai meno, a partire dall’iscrizione alle camere di commercio».
Si percepisce un forte legame tra Nana Bianca e Firenze, nonostante la vostra apertura al mondo e al mercato globale…
«A Firenze negli ultimi dieci anni sono state create tante infrastrutture di pregio, ma il tema centrale è quello delle imprese. Come crearne di nuove? Come possono produrre valore aggiunto per la città e per la Regione? Qui a Firenze c’è un’ottima qualità di vita, non manca nulla, perciò vogliamo valorizzare le filiere col nostro lavoro. Più in generale gli incubatori a livello nazionale possono assumere un ruolo fondamentale per il rilancio dell’economia».
“Investiti 200 milioni in startup? Non bastano”
Allargando il focus possiamo dire che il 2016 sia stato l’anno della svolta per l’ecosistema delle startup italiane?
«Ho qualche dubbio in proposito, perciò non condivido questo ottimismo. Purtroppo non vedo interruttori accesi all’improvviso».
Eppure qualche indicatore positivo c’è: penso a Tim Cook (Apple) e Mark Zuckerberg (Facebook) venuti a farci visita. A Google che ha lanciato il primo programma di accelerazione per Android a Roma, e alla prima academy per sviluppatori di Apple a Napoli…
«Indubbiamente sono segnali positivi, che tuttavia ne compensano altri non altrettanto incoraggianti, dei quali magari tendiamo a dimenticarci».
Ad esempio?
«Intendiamoci, non dico che il bicchiere è mezzo vuoto: certamente vedo la progressione positiva di una generazione di nuovi imprenditori digitali, competenti e attenti al conto economico. Purtroppo però in questo paese mancano ancora i soldi, investimenti importanti dei venture capital».
Perché i venture investono troppo poco in Italia
I dati registrano quasi 200 milioni investiti nelle startup…
«Se vogliamo essere ambiziosi dobbiamo dire che non sono finanziamenti sufficienti. Dal punto di vista delle competenze, del lavoro, della professionalità, andiamo bene. Ma i soldi investiti per consentire il salto di qualità ancora mancano. Mi consenta una battuta per alleggerire il quadro: se i principali venture capital italiani si incontrassero una sera a cena, sono talmente pochi che potremmo metterli tutti allo stesso tavolo. Sono pochi, timorosi, gli investimenti sono elargiti col contagocce. Però capisco perfettamente anche il loro punto di vista, che devono trovare interessi e remunerazioni in quel che fanno, perciò in taluni casi devono andare all’estero ad investire».
Come valuta la notizia che la Cassa Depositi e Prestiti investirà 200 milioni di euro nella startup italiane?
«Dipende da come verranno investiti. Se questi soldi saranno destinati ai venture capital, spingendo un effetto moltiplicatore, ovvero per far leva per trovare altri fondi, si tratta indubbiamente di una notizia molto positiva al punto che potrebbe trattarsi di una scintilla utile per far divampare un incendio. Se invece questi 200 milioni saranno investiti direttamente su singoli progetti, per quanto meritevoli, temo si perderà buona parte del potenziale».
Aspettando un’exit “col botto”
Cosa manca per fare il salto di qualità e portare a maturazione l’intero ecosistema?
«Manca una grossa exit. Per dirla in maniera semplice, manca il botto. Oggi il risparmio non è carente in Italia, ma l’investimento in innovazione e startup deve fornire un alto rendimento, altrimenti poi si finisce per andare su altri mercati proprio per cercare quegli stessi rendimenti che non si sono ottenuti in Italia».
E dal punto di vista della sensibilità generale e della cultura dell’innovazione a che punto siamo?
«Abbiamo fatto grandi passi avanti. Tutti sanno che le startup possono rivitalizzare l’economia. Qualche anno fa c’era molta più diffidenza e chi parlava di startup veniva spesso visto come qualcuno non abbastanza vicino ai temi concreti delle impresa. Oggi invece gli amministratori delegati delle aziende più importanti ne discutono cercando di capire come approcciarsi a nuovi modelli di business».
Quali sono state secondo lei, le 3 startup più convincenti del 2016?
«Nel mio personale podio metto Instal.com, Viralize e Vino75. Instal.com è una piattaforma italiana per la gestione delle campagne di mobile marketing per applicazioni e giochi. Molto intuitiva, adatta anche ad utenti non esperti che permette a chiunque di monitorare in tempo reale i risultati delle campagne e l’andamento dei guadagni. Viralize offre un servizio di distribuzione di video sponsorizzati, facendo leva sui social networks e sulla viralità, per massimizzare la diffusione dei contenuti. E poi Vino 75, un’enoteca digitale di riferimento per le cantine nazionali. E’ la prima azienda italiana di eCommerce ad aver firmato un accordo con il colosso cinese Alibaba. Una startup che si va a posizionare su un asset come il vino che assieme al food è strategico».
Quanto è difficile fare un round in Italia
Tre startup nate dall’incubatore Nana Bianca, pronte per il mercato. Guardano altre realtà quale startup l’ha convinta?
«Certamente Depop, l’applicazione di mobile commerce sviluppata da una startup nata a H-Farm. Sono stati in grado di realizzare un round di 7,4 milioni di euro con fondi esteri. Cifre davvero notevoli, che tuttavia devono far riflettere».
In che senso?
«Un round da 7,4 milioni di euro in Italia è difficilissimo da realizzare, bisognerebbe mettere d’accordo tutti i venture capital; una missione praticamente impossibile. Perciò ancora una volta vediamo startup promettenti cresciute qui, magari da incubatori che hanno creduto sin dal principio nei loro progetti, e poi i finanziamenti li vanno a prendere fuori, con tutte le conseguenze in termini di vincoli e condizioni da rispettare con gli investitori stranieri”.
Un trend per il 2017? La realtà virtuale
Concludendo, per il 2017, quali saranno i trend per gli investimenti nel 2017?
«Si parla tantissimo di big data, Intelligenza Artificiale e machine learning; però scopriamo che mancano ancora le app e che la fruizione del consumatore finale è molto scarsa. Per questo Nana Bianca è intenzionata a concretizzare questi ambiti di applicazione, ma non solo. Infatti un altro tema di grande interesse è la realtà virtuale: cerchiamo contenuti fruibili da inserire negli hardware, consapevoli delle enormi potenzialità di questa prospettiva tecnologica. Se la realtà virtuale prenderà definitivamente piede ci saranno importantissime novità declinate in tanti altri servizi».
Vi sono altre ambiti ancora poco perlustrati ai quali potreste mirare?
«Ci piace l’idea di sviluppare il gaming legato al mobile e possibilmente alla realtà virtuale. Sport elettronici, certificati dal CONI, aprendoci così alla grande sfida dei millennials».
Massimo Fellini
@MassimoFellini