I dati parlano chiaro, il contesto anche. Secondo Accenture gli investimenti globali nel Fintech sono triplicati, tra il 2013 e 2014, da 4,05 miliardi a 12,2 miliardi di dollari. E la via della tecnologia è ormai un passaggio obbligato per banche e attori tradizionali del sistema finanziario che non vogliono soccombere. Lo ha scritto a chiare lettere il Ceo di Jp Morgan Jamie Dimon nella sua missiva annuale agli azionisti: “La Silicon Valley sta arrivando. […] Le startup Fintech possono autorizzare un prestito in pochi minuti, operazione che a una banca potrebbe richiedere settimane. […] Abbiamo molto da imparare”. Grazie alla tecnologia, quindi, le giovani imprese stanno mettendo il sale sulla coda dell’ecosistema. Distruption, come si suol dire. E una delle prime e più importanti conseguenze è il lavoro, deve esserlo per forza di cose.
La semplificazione dei processi e l’automatizzazione degli stessi, con la complicità della crisi, stanno contribuendo a una diminuzione dei posti di lavoro, che ha coinvolto 350mila dipendenti di quattro delle più grandi banche statunitensi e britanniche dal 2008 e proseguirà nel corso del 2015 secondo l’83% degli attori del settore bancario (fonte: Bloomberg). Il bicchiere mezzo vuoto. Quello mezzo pieno risiede nel conteggio di Mc Kinsey, che nel dicembre del 2014 ha individuato negli Stati Uniti più di 12mila startup Fintech (SmartMoney ha mappato quelle italiane), e nei dati della Casa Bianca relativi a 500mila offerte di lavoro per figure che dieci anni fa non esistevano. Il binomio finanza-tecnologia creerà nuove posizioni, lo sta già facendo. Per capire quali siano ci siamo rivolti a diverse persone coinvolte nella catene in differenti zone del mondo.
User experience
L’ambito più citato è quello del design, della user experience. “Servono applicazioni alla Uber nel Fintech”, spiega Matteo Rizzi, partner del fondo specializzato su finanza e tecnologia SBT Venture Capital e co-fondatore dell’evento Fintechstage. Sottoscrive Roberto Ferrari, direttore generale di CheBanca!: “Abbiamo bisogno di designer in grado di disegnare i processi bancari in digitale. Il passo successivo è quello della multicanalità: non bastano user experience e interface, è necessario pensare a una vasta gamma di canali: dalla filiale allo smartphone e alle smart tv passando per smartwatch e tablet”. Giovanni Daprà, co-fondatore e Ceo di MoneyFarm, parla di “product design. Qualcuno che sia in grado di utilizzare le logiche di product design che oggi vengono usate dalle principali aziende tech e conosca le dinamiche del Fintech e i vincoli regolamentari e operativi tipici del nostro settore”.
Semplificazione e dialogo
Riccardo Prodam, capo di ricerca e sviluppo e open innovation di Unicredit, pone l’accento sulla capacità di “semplificare. Innova chi toglie non chi aggiunge: quando Steve Jobs ha iniziato a lavorare a uno smartphone non ha pensato a un telefono con funzioni molto più avanzate di quelli che c’erano in circolazione, ma ha eliminato i tasti. Come banche noi abbiamo un costo del capitale molto alto e siamo molto regolamentati. Attori non bancari che fanno un lavoro simile al nostro, come Paypal, sono più agili e hanno semplificato il prodotto. Starà alle banche centrali circoscrivere la loro attività, ma noi dobbiamo usare lo stesso approccio”. Approccio, e qui entra in gioco Daprà, che le startup affidano a figure che “conoscono la regolamentazione e capiscono come sia possibile soddisfare i requisiti regolamentari adottando soluzioni tecnologiche avanzate” e che “applichino l’expertise nella costruzione di soluzioni finanziarie per le esigenze della clientela con creatività, utilizzando la tecnologia e conoscendo le dinamiche di mercato”. Per far dialogare i due mondi, spiega Rizzi, serviranno “professionisti ibridi in grado di fare ponte. Le banche stanno osservando le startup da vicino e stanno cercando di capire come collaborare, è necessario una sorta di startup manager”.
Analisi dei dati
Yoni Assia, il fondatore della startup israeliana di social trading da 73 milioni di dollari di finanziamenti eToro, introduce il tema dell’analisi dei dati : “Bisogna fare affidare attività di business intelligence a una squadra di professionisti con un background scientifico e matematico”. Sulla formazione in merito interviene Prodam, prevedendo “l’inserimento di laureati in matematica, fisica e ingegneria, rispetto ai più tradizionali in economia o giurisprudenza. In generale servono figure sempre più specializzate”. Ancora Prodam cita i Big data, “che nelle università vengono affrontati con network da 30 nodi mentre noi ne abbiamo da miliardi e miliardi, qualcosa dovrà cambiare anche nella formazione”, e l’estrazione delle informazioni e dell’intelligenza dai dati. “L’intervento dei data scientist”, incalza Ferrari, “è necessario per capire come la banca può diventare rilevante per ogni singolo cliente”.
Growth hacking
I due startupper Daprà e Assia fanno riferimento ai growth hacker. “Qualcuno che sia in grado di utilizzare i dati del prodotto o sul comportamento degli utenti per riuscire a ottimizzare la piattaforma o il servizio ai fini di accelerare la crescita”, spiega il co-fondatore di Money Farm.
Open source e api
“Ovviamente quello che è core non è condivisibile, ma il resto sì, e va condiviso”, afferma Prodam, facendo notare come per il processo di assunzione stesso si rivolga alle community che lavorano sul codice sorgente di Unicredit. “Osservo i migliori e li contatto”, spiega. In termini di professionalità, sono Ferrari e Rizzi a parlare di esperti di Api e digital architect che aprano i sistemi bancari a terzi e “siano in grado di lavorare su piattaforme middleware e corebanking che siano più possibile open”.
Esperti di blockchain
Chiudono i professionisti di risk management citati da Assia. Interessante, inoltre, il riferimento di Rizzi a esperti di blockchain. In un momento in cui anche i colossi come Goldman Sachs scommettono cifre importanti su Bitcon, e soprattutto sulla tecnologia alla base della criptomoneta, sarà importante avere in squadra qualcuno che se ne occupi in modo specifico.