Intervista al giornalista e vice-direttore de Il Post, profondo conoscitore degli Stati Uniti e autore del podcast Morning. E’ in libreria con “California”, appena uscito per Mondadori. «Il sogno americano si realizza semplicemente con minor efficienza e puntualità»
«Il declino americano è diventato un genere letterario, al quale pure io mi aggiungo. Se parliamo della California la cosa strana è questa: molte persone stanno andando via da uno Stato che è comunque la quinta economia al mondo, dove c’è piena occupazione. Eppure tutto ciò basta sempre meno per vivere bene». A pochi giorni dall’uscita del suo ultimo libro California – La fine del sogno, edito da Mondadori, abbiamo intervistato Francesco Costa, giornalista, vicedirettore de il Post e podcaster, per parlare dello stato di salute di una delle regioni del pianeta più associate all’innovazione e alle startup. Poche ore fa il New Yorker, una delle riviste più importanti e autorevoli al mondo, gli ha dedicato un articolo
Nel tuo libro elenchi le cose che funzionano, e sono tante. Ma quelle che non funzionano fanno pensare che non si possa proprio parlare di modello California.
In California rimangono tantissime cose che funzionano. Non è in crisi Hollywood così come non lo è la Silicon Valley, che ancora si nutre di quel rapporto con le università. Del resto la Silicon Valley è nata quando a Stanford un professore aveva invitato gli studenti a lanciare il proprio business mentre ancora studiavano. Hanno messo a disposizione infrastrutture, servizi, risorse, persone. HP è nata qui. Il successo della California, però, non è stato adeguatamente governato e ha reso una parte del popolo vittima del successo.
Perché la Silicon Valley è la Silicon Valley?
Le cause sono molteplici. In una zona relativamente piccola, come è la Bay Area, ha contato la posizione strategica di San Francisco, dove si sono concentrati tanti insediamenti militari, luoghi in cui si sperimentavano tecnologie nelle telecomunicazioni. Come detto, hanno giocato un ruolo università come Stanford; sempre qui c’è un fortissimo settore bancario, quindi con grandi ricchezze da investire; e poi non dimentichiamoci che la California è la terra della corsa all’oro, che si trovava; quando l’esercito decise di sperimentare il primo sistema di connessione tra due computer lo fece qui. Alla fine ne è nato un distretto industriale che attira una forza lavoro unica al mondo, dove se l’idea è promettente non è complicato ottenere finanziamenti.
“Il successo della California non è stato adeguatamente governato e ha reso una parte del popolo vittima del successo”
Prima di parlare dei problemi di questa terra, secondo te quale aspetto positivo della Silicon Valley si potrebbe realisticamente impiantare in Italia?
Parliamo di pianeti diversi. Potremmo però far sì che le nostre università preparino un po’ di più al lavoro. Che si voglia fare i dipendenti o gli imprenditori, ad oggi forma ancora persone che poi dovranno comunque essere formate di nuovo dalle aziende. Si imparano tante cose, ma molto spesso non sono spendibili sul mercato. Negli USA in generale questo non accade. Inoltre credo che per rendere convenienti gli investimenti sui giovani ci siano tanti metodi come le decontribuzioni.
In California scrivi del rancore che parte della popolazione prova nei confronti dei dipendenti delle Big Tech e delle Big Tech in generale.
Sono aziende che hanno costruito il proprio successo attraverso una decostruzione dei mercati. È evidente che c’è qualcuno che ha perso. D’altra parte, parliamo di soggetti che hanno capito prima dove stava andando il mondo. Non ci si può lamentare di Amazon che cresce in pandemia e ti ruba clienti se non hai nemmeno un canale ecommerce. Ma vorrei sottolineare una cosa: mi sembra che a volte sovrapponiamo tutte le aziende della Silicon Valley con una specifica tipologia di azienda, ovvero quella che si basa sui dati delle persone, come Google e Meta. Queste società hanno avuto un impatto sull’informazione, sulla democrazia e sulla salute mentale.
Eppure tanti ex funzionari pubblici ed ex politici finiscono a lavorare per loro, con il classico meccanismo delle porte girevoli.
Il lobbismo è stato inventato dagli americani. Sono attività che vengono svolte con un dispendio di denaro e risorse umane straordinario. Ma non riguarda soltanto la Silicon Valley. Chiunque voglia aver influenza sulle scelte politiche deve per forza aver rapporti con la classe politica. Spesso, proprio perché parliamo di relazioni, le Big Tech assumono persone con esperienza politica, come ex assistenti o ex parlamentari.
“Non ho mai creduto nella filosofia del piccolo e bello. Bisogna davvero essere privilegiati per godere di questo modello”
Stando così le cose, credi che le Big Tech siano parte del problema o parte della soluzione?
Non ho mai creduto nella filosofia del piccolo e bello. Bisogna davvero essere privilegiati per godere di questo modello. Le più grandi innovazioni nella vita delle persone, da quelle nel campo della farmacologia in giù, derivano dalle grandi aziende che possono investire in ricerca e sviluppo. Il punto è che queste aziende vanno regolate e va evitato che diventino oligopoli. Le leggi antitrust ci sono.
In un’intervista che abbiamo fatto di recente a Paolo Privitera è stato ribadito che l’economia americana è ampiamente ripartita, mentre l’Europa fa i conti con tante crisi.
Gli USA hanno un tasso di disoccupazione bassissimo. Sotto la presidente Trump l’economia andava bene, ma oggi va ancora meglio in termini di PIL relativo e assoluto. Questa però è una notizia fino a un certo punto: l’economia da loro va forte a prescindere dalla politica. C’è una forza lavoro qualificata, è facile aver capitali e le imprese possono investire. Rimane poi certo una grande flessibilità in base alla quale chi perde il posto di lavoro perde anche l’assicurazione sanitaria collegata. Il prezzo che l’America in generale esige è la ferocia con cui viene trattato chi non ce fa. Ma è ancora la terra delle opportunità, del sogno americano che si realizza semplicemente con minor efficienza e puntualità. Quella ferocia c’è sempre stata e le persone non invocano l’intervento dello Stato come avviene in Italia.
Tra le emergenze più gravi che denunci c’è quella abitativa in California.
C’è bisogno di milioni di case. Ho l’impressione che gli investimenti in housing sociale producano alla fine qualche migliaio di abitazioni in più, impercettibili dal mercato. Non si tratta di dare una casa soltanto a chi non se la può permettere, ma di avere un’offerta tale da generare una discesa dei prezzi. I prezzi salgono perché ci sono molte meno case del necessario. Da questo punto di vista solo i privati possono cambiare le cose.
A San Francisco si testano i robotaxi di Cruise e Uber sperimenterà veicoli a guida autonoma per consegnare con Uber Eats. Vista da fuori sembra che sia una terra in cui c’è ampia libertà d’impresa. O semplicemente ci sono regole chiare?
È una quesitone di norme, ma anche culturale. E non riguarda soltanto la California: le società private come SpaceX e Blue Origin hanno spostato gli stabilimenti in Texas, dove basta comprare un terreno per farci sopra quel che si vuole. In America quando sono arrivati i monopattini li hanno messi ovunque e poi li hanno regolati. In Italia ancora ne stiamo discutendo. Ovvio che questo approccio porta anche a rischi.