La ricetta di Erdogan per proiettare la nazione su scala internazionale piace agli imprenditori. Ma il paese, alle elezioni nel 2023, è attraversato da forti tensioni interne
I gabbiani si levano in circoli e spirali dalle geometrie impenetrabili sul Bosforo. Stormi di uccelli biancastri si stagliano sbattendo le ali pesanti. All’orizzonte i minareti, le moschee, Ayasofia da un lato; la torre della televisione, poderosi grattacieli, nuove costruzioni accatastate senza ordine apparente dall’altro. Un panorama in continua evoluzione, ridisegnato dai cantieri che sbucano dai saliscendi, dai martelli pneumatici che battono senza sosta, e destinato a mutare ancora. Fra qualche anno, al posto dei volatili, nei cieli di Istanbul, millenaria e sterminata megalopoli, potrebbero aggirarsi droni di nuova generazione. Dallo spazio, satelliti in grado di leggere l’ora al polso di uno qualsiasi dei tanti pescatori che stazionano sul ponte di Galata avranno cura dei confini del paese, mentre per le strade il traffico arrancherà, infernale come sempre; ma sotto al cofano, al posto di nafta e benzina, un motore silenzioso pomperà cavalli puliti. Cavalli elettrici. La Turchia di oggi è questo: edilizia, startup e voglia, malcelata, di riguadagnare un ruolo globale, nel segno di quello che fu l’Impero ottomano.
Contrasti. Antico e moderno che convivono, a volte si scontrano. Oriente e Occidente miscelati in proporzioni variabili a seconda della longitudine. La colonizzazione culturale anglosassone è arrivata anche qui. Nei bar di Pera, quartiere a due passi da piazza Taksim, si ascolta la stessa musica di New York, Helsinki o Londra. I locali hanno la medesima foggia, un bicchiere dopo l’altro, identiche la fauna maschile e femminile e la propensione al flirt. E’ solo quando si abbandona la metropoli che l’occidente digrada, per cedere il passo a tratti islamici, che si fanno via via più marcati.
Potenza e miseria. Alla grandeur dei nuovi ricchi e di una tecnologia che si sforza di proiettare la nazione su scala internazionale si contrappone un altro paese, quello della gente comune, della spesa al bazaar e dei carretti trascinati per strada. Nei quartieri universitari gli studenti dormono sulle panchine per il caro affitti, in quelli storici la gentrification svuota gli edifici spostando masse verso la sterminata periferia. Edilizia, si diceva, parola chiave per il nuovo corso. Opere faraoniche non sempre centrate, a volte, lamenta qualcuno, realizzate senza un disegno preciso per spingere l’economia e disegnare il profilo di un paese più moderno. Come l’aeroporto di Istanbul, per due anni il più grande del mondo, inaugurato nel 2019 e cresciuto attorno all’immenso duty free; costruito, però, in un punto infelice dal punto di vista meteorologico, come racconta bene Giovanna Loccatelli nel suo “L’oro della Turchia”. O i ponti che vorrebbero risolvere il traffico e invece, chiosa chi vive nella zona, sono mero sfoggio di ingegneria. Sono oltre 200 i grattacieli in città. Ce ne sono ovunque, e altri sono in costruzione. Milano, Porta Nuova, il Bosco Verticale, al confronto, sembrano uno sfizio da paesone artigianale. Ma anche Londra, con la City e Canary Wharf, sfigura. Il paragone più appropriato è con la Cina e la megalomania da cartolina.
Liberismo e religione
La fase più recente della storia turca comincia all’inizio del millennio con l’arrivo al potere di Recep Tayyp Erdogan. Capace sindaco della metropoli sul Bosforo negli anni Novanta, dichiaratamente un islamico moderato, ha risalito tutta la gerarchia del potere diventando prima premier, poi presidente, dopo una riforma da lui stesso voluta. Durante i primi anni di una parabola non ancora esaurita il Pil, il prodotto interno lordo della Turchia, ha conosciuto un’impennata senza precedenti: dai 201,8 miliardi di dollari del 2000 ai 957,8 miliardi del 2013. Quintuplicato in dieci anni.
Ai tempi Jim O’Neil aveva da poco coniato l’acronimo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, cui si aggiunse il Sudafrica), teorizzando lo spostamento dell’asse economico e geopolitico sempre più verso sud e verso est. Qualche anno dopo la lista si rivelò incompleta. Tra i MINT l’ultima consonate spettava proprio alla Turchia, assieme a Messico, Indonesia, Nigeria.
La ricerca di paesi emergenti e di nuove frontiere di investimento ha reso le scommesse sempre più azzardate. Dieci anni dopo, molte speranze si sono raffreddate. Solo Pechino è entrata a buon diritto nel club dei grandi. Il Brasile è stremato dagli scandali e dall’ottusità del presidente Bolsonaro; del Sudafrica si sono perse le tracce, tra corruzione, criminalità, problemi di salute pubblica e una crisi sociale permanente; la Nigeria è paralizzata da fortissimime tensioni interne. Resta la Turchia. Entrata nel G20, guidata da un uomo forte, con un’apparato amministrativo efficiente, seppure non certo incorruttibile. Ma, soprattutto, diventata potenza regionale, una realtà con cui chiunque – e nell’area sono tanti – è costretto a fare i conti.
Il leader aveva trovato un paese a tratti caotico, e lo aveva avviato ad ampie falcate sulla strada dello sviluppo. Il governo garantisce la crescita economica, sul resto mglio non interferire: questo l’accordo implicito. Il controllo dell’esecutivo sul potere giudiziario è asfissiante. Ma quando gli indici hanno rallentato, le tensioni sono esplose. Oggi in Turchia basta poco per assaggiare il carcere. Nelle strade, nelle piazze, nei negozi si respira un’aria pesante. Non solo per l’inquinamento.
Il paese guarda al di fuori dei confini. La politica estera assertiva e la questione dei diritti umani hanno sbarrato la strada dell’annessione all’Europa, assieme ai timori di una nuova ondata migratoria. Ma la svalutazione della lira è vista con favore dal governo, perché rende convenienti le esportazioni e consente di incassare valuta pregiata. Non altrettanto dalla popolazione, stremata dall’inflazione e dalla corsa di un sistema economico perennemente surriscaldato. Nei giorni scorsi il valore della divisa turca è sceso ai minimi storici dopo l’annuncio del presidente, che ha dichiarato di voler espellere un gruppo di otto diplomatici occidentali: paesi di primo piano (tra cui manca l’Italia), che avevano firmato un documento di solidarietà nei confronti di un oppositore politico incarcerato. A inizio millennio, per un dollaro bastavano 1,5 lire turche, oggi ne servono undici. Tutto ciò che viene importato costa, parecchio. Per i nuovi ricchi cambia poco; per le famiglie, molto.
La nuova Turchia: startup, droni e uomo nello spazio
Ma la strategia di Erdogan non è basata unicamente su pilastri di cemento armato. Nelle ambizioni del governo, c’è un altro settore chiave: quello militare. Si spende per la ricerca ad alta potenziale, fioccano le commesse, illustra Mehmet Fatih Kacir, viceministro all’Industria e alla Tecnologia, raccontando traguardi raggiunti e obiettivi futuri.
I risultati cominciano a intravedersi. Il paese, unico al mondo assieme agli Stati Uniti, organizza una competizione per missili; l’intenzione, nel giro di un quinquennio, è quella di spedire un uomo nello spazio, e una sonda sulla luna. Non si tratta solo di business alla Elon Musk, ma di difesa.
L’industria dei droni turca è tre le più evolute a livello globale, con velivoli più adatti a pattugliare il territorio e all’occorrenza a sparare che a scattare fotografie degli splendidi tramonti sul Bosforo; le tecnologie satellitari mirano a inserirsi nella scia dei più sofisticati marchingegni occidentali. La meccanica di precisione, del resto, è ormai avanzata a sufficienza, e può dare sostanza allo sforzo ingegneristico, senza bisogno di ricorrere a partner esterni.
Ankara non perde occasione per fare sfoggio ai cittadini di questo nuovo corso, impiegando il potere di mobilitazione di cui dispone. Come nella prima edizione di Teknofest nel 2018, una manifestazione votata all’innovazione: cancelli aperti per un’adunata oceanica, centinaia di migliaia di persone arrivate in abiti che denunciano una provenienza lontana dallo sfarzo cittadino, richiamate dal comizio del capo e dagli stand tecnologici di multinazionali e startup locali, tutte conformi ai dettami del genere, dal coworking al calcetto in ufficio. Sono loro la vera base del consenso del premier che si avvia alle elezioni nel 2023 con i sondaggi in discesa. Ma a fianco degli stand di Big Tech, aerei da combattimento facevano bella mostra di sé, in una strana commistione che racconta molto dell’ideologia governativa.
2023, l’incognita del voto
Se la narrazione di Ankara è quella di un paese in piena corsa, e che continua a crescere in termini di PIL, se la Turchia è riuscita a infilare cinque unicorni uno dietro l’altro nel giro di un paio d’anni (Trendyol, il più grande, è un gigante attivo nell’e-commerce), nonostante questo, il vento in politica è cambiato da anni. Nel 2014 la marcia dell’economia ha cominciato a rallentare. Tensioni latenti contro l’autoritarismo e l’islamizzazione hanno trovato sfogo nel 2016 in un colpo di stato fallito. Il golpe si è trasformato nell’occasione per operare un repulisti dell’esercito (a lungo garante della laicità dello Stato, sul modello di Ataturk) ma anche dei posti chiave della pubblica amministrazione e dei media.
Fra due anni, nel 2023, la resa dei conti. Erdogan perderà? Qualcuno suggerisce sottovoce che non potrà essere così. Costi quel che costi. Il leader, dicono, in caso di sconfitta potrebbe essere costretto a lasciare il paese, inseguito dai conti aperti in un ventennio. Questo getta un’ombra sinistra sulla campagna elettorale, e sulle consultazioni stesse. Molto, e questo pare certo, si giocherà sull’economia.
Mentre nei laboratori della Togg si sta sviluppando un modello di auto elettrica completamente turco e le imprese straniere, anche italiane, sono invitate con ponti d’oro, il malcontento monta tra la popolazione. Difficile prevedere il futuro dopo la consultazione. Tra gli imprenditori italiani presenti da decenni qualcuno ammette sottovoce e a registratore spento che è impossibile fare a meno dell’appoggio del governo. La mano carezzevole che può rendere tutto semplice con cene nelle migliori terrazze di Istanbul può trasformarsi all’improvviso in un pugno d’acciaio. “Bisogna stare al gioco. Chi viene qui accetta il rischio” sussurra uno di loro.
Una cosa appare certa: il nazionalismo di Erdogan vuole riannodare i fili con una tradizione imperiale ormai lontana. Al potenziale geopolitico si somma la giovane età della popolazione, ottanta milioni di persone, la metà sotto i trent’anni. La Turchia si tiene le mani libere: è nella Nato ma mantiene un esercito che nell’alleanza è secondo solo agli Stati Uniti, ed è pronta a usarlo per difendere i propri interessi. E allunga i tentacoli in territori contesi, in cui c’è molto da fare, e molto da ricostruire. L’aeroporto di Istanbul è un crocevia che conta destinazioni non usuali: partono e atterrano voli da Mogadiscio, Baghdad, Afghanistan. Le relazioni corrono sulle ali degli aerei a reazione.
Ricorda, per certi versi, l’Unione Sovietica: anche Mosca badava più ai confini che alla politica interna. Eccelleva nelle scienze e nello sport, meno nello sfamare i cittadini. Ma era socialista; mentre Ankara non rifugge il mercato, fino a sfiorare un liberismo di stato. Ammainata la bandiera rossa, Putin, come Erdogan, ha saputo guidare l’economia e ridare un ruolo internazionale a un paese che pareva consegnato a un ruolo di secondo piano facendo leva, senza scrupoli, sulle risorse della potenza. Come nel caso del controllo dei migranti.
Alla fine della storia profetizzata troppo presto da Francis Fukuyama sul limitare del millennio è seguita la pax americana. Ora che anche quell’epoca è tramontata, paesi prima ai margini reclamano uno spazio sulla scena. La torta, però, resta la stessa. Inutile essere moralisti. Fare affari è un modo per non farsi la guerra. Amazon sta per sbarcare in Egitto, non certo una democrazia, per aprirsi un varco in Africa, e i prossimi mondiali di calcio saranno in Qatar. Pur di giocarli lì la competizione si disputerà d’inverno per il caldo. Finale il 18 dicembre, poco prima di Natale. Con buona pace di tutti.