Per l’istituto, servono urgentemente nuovi aiuti a fondo perduto e la cancellazione delle scadenze fiscali erariali
Il crollo del PIL italiano, sceso nel secondo trimestre 2020 del 12,4% sul trimestre precedente e persino del 17,3% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno rischia di essere solo l’inizio. Perché gli effetti della crisi legata al Coronavirus dovremo ancora vederli e probabilmente si manifesteranno solo nel prossimo periodo, quando cesserà il divieto ex lege di licenziare e i privati finiranno i prestiti a condizioni vantaggiose concessi dallo Stato. E così, a numeri senza precedenti – come sono quelli dell’ISTAT – potrebbe seguire una ondata di default e fallimenti mai vista prima, che la CGIA ha provato a fotografare questa mattina con un report focalizzato sulla resilienza delle micro imprese.
Sono almeno quattro micro imprese su 10, che in termini assoluti vengono stimate in circa 1,7 milioni di attività, quelle che rischiano la chiusura a causa della crisi economica provocata dall’emergenza sanitaria esplosa nei mesi scorsi. A dirlo è la CGIA dopo aver appreso i risultati dell’ultima nota mensile pubblicata dall’ISTAT sull’andamento dell’economia italiana. L’Istituto, infatti, ha realizzato un sondaggio su un campione rappresentativo di aziende italiane di diversa dimensione da dove è emerso che le micro realtà aziendali sono, tra tutte, quelle più in difficoltà.
“Ci riferiamo – ha spiegato il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo – a quel ceto medio produttivo costituito da imprese dei servizi, negozianti, botteghe artigiane e partite Iva con meno di 10 addetti che dopo il lockdown non si sono più riprese e, ora, hanno manifestato l’intenzione di chiudere definitivamente la saracinesca. I settori più vulnerabili alla crisi emersi da questa indagine sono stati i bar, i ristoranti, le attività ricettive, il piccolo commercio, il comparto della cultura e dell’intrattenimento. Nel produttivo – ha concluso Zabeo – le difficoltà hanno investito soprattutto il settore del mobile, del legno, della carta e della stampa, nonché il tessile, l’abbigliamento e le calzature. Con poca liquidità a disposizione e il crollo dei consumi delle famiglie, i bilanci di queste micro attività si sono colorati di rosso. Una situazione ritenuta irreversibile che sta inducendo tanti piccoli imprenditori a gettare definitivamente la spugna”.
“Gli effetti economici del Covid-19 – ha sottolineato il segretario della CGIA, Renato Mason – si sono sovrapposti ad una situazione generale che era già profondamente deteriorata. Ricordo che tra il 2009 e il 2019 lo stock complessivo delle aziende artigiane presenti in Italia è sceso di quasi 180.000 unità . Circa il 60 per cento della contrazione ha riguardato attività legate al comparto casa: edili, lattonieri, posatori, dipintori, elettricisti, idraulici, etc. hanno vissuto anni difficili e molti sono stati costretti a cessare l’attività. La crisi dell’edilizia e la caduta verticale dei consumi delle famiglie sono stati letali. Certo, molte altre professioni artigiane, soprattutto legate al mondo del design, del web, della comunicazione, si stanno imponendo. Purtroppo, le profonde trasformazioni in atto e la drammatica crisi che vivremo nei prossimi mesi cancelleranno moltissime attività che cambieranno il volto delle nostre città, incidendo negativamente anche sulla coesione sociale del Paese”.
I suggerimenti della CGIA per aiutare le micro imprese
La CGIA torna a chiedere che con il decreto di Agosto le micro realtà commerciali e produttive più fragili all’emergenza sanitaria siano aiutate a rimanere in vita. Come ? In primo luogo, attraverso una ulteriore e più robusta erogazione di contributi a fondo perduto; in secondo luogo, con la cancellazione delle scadenze fiscali erariali, almeno sino alla fine di quest’anno. “Le previsioni, purtroppo non lasciano presagire nulla di buono”.
Dalla CGIA ricordano che nel 2009, l’annus horribilis dell’economia italiana di questi ultimi 75 anni, il Pil nazionale è sceso del 5,5 per cento, mentre il tasso di disoccupazione nel giro di 2 anni è salito dal 6 al 12 per cento. Con un Pil che nelle più rosee previsioni quest’anno dovrebbe diminuire del 10 per cento, quasi il doppio della contrazione registrata nel 2009, il pericolo che il numero dei disoccupati aumenti esponenzialmente è molto elevato. La chiusura dovuta alla crisi di molte piccole attività ha anche delle ricadute sociali altrettanto negative.
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“Quando chiude definitivamente la saracinesca un piccolo negozio o una bottega artigiana si perdono conoscenze e saper fare difficilmente recuperabili e la qualità della vita di quel quartiere peggiora a vista d’occhio. Altresì, viene meno un punto di socializzazione, c’è meno sicurezza, più degrado e la qualità della vita di quel luogo peggiora. Oltre a dare liquidità, tagliare le tasse e alleggerire la burocrazia è poi necessario rivalutare il lavoro manuale”, dicono dalla CGIA. “Negli ultimi 40 anni c’è stata una svalutazione culturale che è stata spaventosa. Attraverso le riforme della scuola avvenute in questi ultimi anni e, soprattutto, con il nuovo Testo unico sull’apprendistato, alcuni passi importanti sono comunque stati compiuti. Ma non basta. Bisogna fare una vera e propria rivoluzione per ridare dignità, valore sociale e un giusto riconoscimento economico a tutte quelle professioni dove il saper fare con le proprie mani costituisce una virtù aggiuntiva che rischiamo colpevolmente di perdere. Non possiamo nasconderci, tuttavia, che nonostante la crisi c’è un grande paradosso a cui non riusciamo a dare una soluzione. Mentre tante micro attività chiudono, molti settori, almeno fino a poco tempo fa denunciavano la difficoltà a reperire personale qualificato”. È il grido d’aiuto dei piccoli imprenditori alla guida di migliaia di micro imprese. Il Governo li ascolterà?