I “green jobs” sono, in termini numerici, pochi soprattutto rispetto alla disoccupazione causata dall’innovazione. Per la gestione degli impianti più moderni oggi servono 15 persone: un tempo erano almeno un migliaio
Una delle parole d’ordine del ventunesimo secolo è green jobs. Ma siamo sicuri che esistano sul serio lavori che hanno una specificità verde e che siano in quantità tale da poter affrontare lo tsunami rappresentato dall’introduzione della robotica e dell’intelligenza artificiale? Fenomeni che secondo l’istituto di ricerca Mckinsey porteranno entro il 2030-40 a una perdita di 800 milioni di posti di lavoro a livello mondiale. E che ruolo avrà l’economia circolare in tutto ciò? Andiamo con ordine.
Di green jobs avevamo già parlato pochi mesi fa: stando ai dati presentati all’interno del New Energy Outlook 2018 realizzato da Bloomberg, entro il 2030 le fonti di generazione eolica e solare dovrebbero da sole garantire il 50% del fabbisogno di energia a livello mondiale e addirittura il 90% di quello italiano, percentuale che salirà al 100% entro il 2050. Ma è davvero così, anche in Italia?
Lavoro, questo sconosciuto
Il primo aspetto riguarda le rinnovabili che nell’ipotesi, tutta da verificare, che si arrivi a una produzione energetica al 100% rinnovabile al 2050, secondo una ricerca internazionale guidata da Mark Z. Jacobson dell’università di Stanford “100% Clean and Renewable Wind, Water, and Sunlight All-Sector Energy Roadmaps for 139 Countries of the World” che ha sviluppato delle road map per la transizione energetica verso l’utilizzo totale delle rinnovabili al 2050 in 139 paesi che potrebbero essere “spinti”, in quella data esclusivamente dal vento, dall’acqua e dal Sole.
Sostituendo, così, totalmente le energia fossili, creando quindi nuova occupazione stabile e permanente per 24,3 milioni di persone. In realtà i posti di lavoro creati da questo traguardo delle rinnovabili sarebbero 52 milioni, ma i ricercatori del team hanno voluto avere un approccio complessivo, e a nostro giudizio più che corretto, e hanno contabilizzato nell’analisi anche i posti di lavoro perduti nel settore fossile, 27,2 milioni. Risultato, positivo: incremento netto di 24,3 milioni.
I green jobs della Circular economy secondo l’Ue
Previsioni simili a livello mondiale non ne abbiamo per l’economia circolare, ma per l’Europa da un studio della Commissione Europea sull’economia circolare e il lavoro “Impacts of circular economy policies on the labour market” del maggio 2018, si prevede la creazione nell’Unione Europea di circa 650.000 – 700.000 posti di lavoro aggiuntivi al 2030 con un incremento dello 0,3%.
«L’impiego segue la stessa dinamica del Pil perché i dati della produzione sono i driver della domanda di lavoro. – affermano i ricercatori – E l’incremento sarà guidato per la massima parte dal settore della gestione dei rifiuti, per far fronte alla maggiore domanda di materiali riciclati». Nella filiera dei rifiuti saranno impiegati 600mila dei 700mila nuovi addetti totali, ossia 58mila l’anno, suddivisi per tutti i paesi dell’Unione Europea. Un po’ poco, visto che partiamo da una situazione odierna che vede 15 milioni di disoccupati, nell’Unione Europea.
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Green Job è sinonimo di Good Job?
E poichè rifiuti e servizi potrebbero non brillare per qualità del lavoro, potremmo chiederci se Green Job è sinonimo di Good Job. Ed è una delle questioni che pone un recente rapporto sul lavoro nell’economia circolare “Waste Management in Europe. Good Jobs in the Circular Economy?” realizzato a dicembre 2017 da Epsu la Federazione dei Sindacati dei Lavoratori Pubblici europei.
In quello studio si legge: «Nell’entusiasmo per la creazione dei posti di lavoro, la discussione sulle condizioni e la retribuzione sono spesso messi da parte. A oggi non è stato scritto molto sulla qualità di questi lavori e su cosa significhi la transizione verso un’economia circolare circa i cambiamenti delle competenze e la delocalizzazione del lavoro. Si tratta – prosegue il rapporto – di posti di lavoro che sono per la maggior parte a basso reddito, poco qualificati e che comprendono oltre mezzo milione di persone impiegate nella raccolta dei rifiuti».
I danni dell’Industria 4.0
E le cose si complicano quando ragioniamo sui flussi di materia che appartengono alla manifattura. Su alcuni, come i metalli quali acciaio e alluminio, il sistema circolare funziona già ora, ma sotto al profilo dell’occupazione ci sono problemi non banali. In questi settori, che sono già oggi a bassa intensità di lavoro, l’arrivo di Industria 4.0 espelle manodopera in maniera massiccia, indipendentemente dal fatto che i processi appartengano o meno all’economia circolare.
Quattordici dipendenti dove un tempo ne avremmo trovato 1000
Il nuovo stabilimento dell’impresa siderurgica austriaca Voestalpine nella cittadina di Leoben a sudest di Vienna impiega 14 (quattordici) dipendenti, per realizzare mezzo milione di tonnellate di acciai speciali ogni anno. Un impianto simile degli anni sessanta impiegava 1.000 addetti. Ma a guidare la linea di produzione, lunga settecento metri, sono solo tre tecnici, il resto è personale amministrativo. «Bisogna scordarsi che l’acciaio dia lavoro. – ha detto a Bloomberg, Wolfgang Eder, amministratore delegato di Voestalpine – Nel lungo periodo perderemo la maggior parte dei classici operai, persone che lavorano al caldo e nello sporco delle cokerie e degli altiforni. Tutto sarà automatizzato».
Stesso discorso per la chimica. La conversione delle raffinerie Eni di Porto Marghera e di Gela in bioraffinerie avanzate può al massimo conservare il lavoro esistente in precedenza come si legge dai comunicati dell’azienda. E si tratta d’impianti d’eccellenza mondiale che consentono di ottenere del biodiesel al 100% utilizzabile come il normale gasolio, partendo dagli oli alimentari esausti. Un’esperienza green che è il massimo della circolarità, ma non produce nuovi occupati.
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Analizzando a fondo alcune esperienze di alto livello e di prim’ordine dell’economia circolare italiana si nota, infatti, che spesso il fatturato di queste aziende circa l’economia green si attesta intorno al 10% massimo 15% del totale, mentre la necessità di nuovi addetti specializzati in queste discipline sono assai scarse. Per una ragione molto semplice. Un processo che usa carta o polimeri riciclati è al 90% simile a quello classico, la vera differenza è nell’impostazione del processo e trattandosi di processi industriali assai consolidati, il massimo che può capitare sul fronte dell’occupazione è il rivolgersi a uno studio esterno per una consulenza tecnica o di ricerca ed effettuare degli aggiornamenti professionali per gli addetti già assunti.
E tornando all’energia anche il settore dell’efficientamento energetico non brillerà sul fronte dell’occupazione. A livello industriale, infatti, la quasi totalità delle aziende già ha fatto grandi passi su questo fronte e i prossimi step potrebbero essere antieconomici sul fronte dell’adeguamento. Già perché un altro grande equivoco è quello che lega l’efficientamento energetico al driver ambientale. Cosa che non è vera.
Il lato oscuro del lavoro green
Il risparmio energetico è una logica industriale, molto consolidata da tempo in Italia visto l’alto prezzo storico dell’energia, volta in massima parte al versante economico e non a quello ambientale. Lo affermava in tempi non sospetti Pasquale Pistorio che da amministratore delegato di Sgs sosteneva che l’efficienza energetica fatta nella sua azienda era prima di tutto legata una corretta conduzione della stessa e che in seconda battuta c’erano i vantaggi per l’ambiente e il clima. E assimilare figure come quella dell’elettrotecnico esperto in efficienza energetica a un nuovo green job è decisamente una forzatura, visto che tutte queste figure devono fare i conti con elementi legati al risparmio energetico. Pena l’espulsione dal mercato del lavoro che richiede, anche, queste competenze che possono essere acquisite attraverso l’aggiornamento professionale.
E anche il settore dell’edilizia efficiente avrà pochi addetti. Le nuove costruzioni sono già di default energeticamente efficienti e l’automazione sta colpendo duro anche qui. Molto del lavoro si sta spostando dai cantieri alle industrie da dove arrivano parti di edifici sempre più complesse e realizzate da macchine a controllo numerico, se non da robot e anche nei cantieri sta arrivando la stampa 3D.
Rimane l’efficientamento del costruito dove però la parcellizzazione della proprietà immobiliare impedisce di fatto interventi massicci, sia per questioni tecniche, sia economiche. Oltre a ciò un ruolo importante in questo scenario lo giocherà la formazione professionale degli addetti esistenti per cui anche nell’edilizia saranno pochi i nuovi addetti “green”.
Certo serviranno progettisti quali ingegneri e architetti che sappiano gestire i molti aspetti dell’edilizia sostenibile, come l’efficienza energetica, il riciclo dei materiali a fine vita, l’uso di materiali a basso impatto ambientale. Ma anche in questo caso si assisterà a una polarizzazione come in molti alti settori. Una ristretta minoranza di professionisti evolverà verso la fascia alta del mercato che sarà di sicuro green, mentre il resto sarà espulso dal mercato del lavoro grazie ad automazione e intelligenza artificiale.
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E il green ha anche un’altra caratteristica che lo rende peculiare. La sostenibilità applicata su vasta scala non consentirà il ritorno ai rimedi del passato che sono stati adottati, per quanto riguarda l’occupazione, di fronte all’innovazione tecnologica. Spesso si sente dire dagli “esperti”, infatti, che in passato durante i passaggi più innovativi nei sistemi di produzione l’occupazione sia salita. Vero. Il problema però è che crescevano anche i mercati di sbocco. E non di poco. Prendiamo un esempio. Quello dell’inventore della manifattura moderna: Henry Ford. L’introduzione della catena di montaggio nella manifattura automobilistica dell’epoca incrementò l’occupazione nel settore metalmeccanico solo perché crebbe un mercato che in precedenza era di poche decine di unità.
Fonte: PEFC
Tra il 1908 e il 1927 Ford realizzò 15 milioni del famoso Modello T, una quantità inimmaginabile di auto in soli 19 anni se si fossero utilizzati i metodi produttivi precedenti. E a coloro che sperano in un driver occupazionale green dovuto all’introduzione dell’auto elettrica nei prossimi trenta anni consiglio di visitare uno degli stabilimenti Tesla dove autovetture dall’alto valore aggiunto sono prodotte da robot e computer, con poco lavoro umano. Del resto l’auto elettrica sarà il paradosso della trasformazione verso la sostenibilità. Queste auto, infatti, che se sono alimentate a elettricità da fonti rinnovabili sono molto sostenibili, hanno anche delle caratteristiche che le renderanno a bassa intensità di lavoro. Prima di tutto la fattura della motorizzazione.
Il motore elettrico è molto più semplice di quello endotermico, possiede circa venti parti in movimento contro le mille di quello alimentato con i carburanti. E l’autovettura stessa è più semplice visto che è composta da una scocca, da un motore, dalle batterie e da un’elettronica di gestione, tutte componenti standard, a parte la scocca, che saranno montate su centinaia di modelli consentendo la realizzazione di fabbriche automatiche che produrranno su vasta scala. E non sarà solo il settore della manifattura delle auto green a perdere posti di lavoro, ma anche quello della manutenzione.
Le riparazioni dell’auto elettrica saranno molto meno frequenti di quelle dell’auto endotermica e con meno contenuto di lavoro. Il motore elettrico è molto meno soggetto all’usura di quello endotermico e la sua sostituzione in caso di guasti richiede molte meno ore di lavoro/uomo. E i trasporti sostenibili faranno strage di posti di lavoro anche nella logistica, visto che la loro introduzione sui mercati sarà parallela all’adozione di sistemi di guida autonoma a intelligenza artificiale. Insomma il futuro potrebbe essere green per l’ambiente, ma sotto al profilo dell’occupazione la sostenibilità sembra non essere un grande driver di sviluppo.