L’appuntamento in presenza dal 24 ottobre al 4 novembre a Como. Gli workshop saranno alla Villa del Grumello. «Sono aperti a tutti», ci ha spiegato la fondatrice del Copenhagen Institute of Interaction Design
Sarà la prima volta in Italia. Le Pop Up School sono un’iniziativa che dal 2007 ha collezionato incontri e occasioni di crescita per professionisti e studenti in ogni angolo del mondo. Dal Perù al Giappone, passando per Grecia e India, andando là dove sfide e problemi locali, legati al territorio, possono sprigionare la creatività. Il Copenhagen Institute of Interaction Design (CIID) ha fissato le prossime tappe, a Como, a Villa del Grumello, dove dal 24 ottobre al 4 novembre esperti e docenti internazionali parleranno di tecnologie, metaverso, design thinking e molto altro in piccole classi eterogenee (25 persone al massimo per workshop). Le iscrizioni sono già aperte, con tutti i dettagli per singoli workshop. Per presentare un progetto così strutturato, ma finora mai visto in Italia, abbiamo intervistato Simona Maschi, Ceo e fondatrice del Copenhagen Institute of Interaction Design, già ospite a SIOS22 Sardina Edition a maggio.
SI: Cosa sono le Pop Up School? E come mai le avete chiamate così?
Simona Maschi: «La prima è stata organizzata a Copenaghen nel 2007. Intendiamo la scuola come un format distribuito, flessibile e, si potrebbe dire, opportunistico. La portiamo là dove serve. Non c’è una sede o una struttura fisica. Siamo agili e andiamo là dove ci sono temi e sfide interessanti. Abbiamo fatto Pop Up School in 25 Stati diversi e tutto quel che ci serve sta dentro sette valige. I workshop sono aperti a chiunque: abbiamo avuto uno studente di 16 anni che voleva approfondire il tema dell’intelligenza artificiale, così come un pensionato che volevano lanciare la sua startup. Ciascuno impara dall’altro, in quel che noi chiamiamo il peer to peer learning. Spesso ci sono anche professionisti a un pivoting moment della propria carriera, in un momento di crescita personale o svolta. Il nostro criterio di successo è semplice: al termine di ogni Pop Up School impari uno strumento e una nuova capacità».
SI: Come si insegna a fare innovazione?
Simona Maschi: «Per noi non ha senso guardare all innovazione come tecnologia e basta. Ha senso soltanto quando provoca un miglioramento sociale. Oggi si parla sempre di più del bisogno di prodotti e servizi che siano rigenerativi. Tutti i nostri corsi partono con l’intenzione di servire uno dei goal della sostenibilità dell’ONU (sono i 17 obiettivi dell’Agenda 2030, ndr). Ogni classe di una Pop Up School ha il proprio goal da traguardare. Al momento stiamo lavorando con il nostro partner per l’appuntamento a Como, la Fondazione Volta, per trovare temi locali interessanti su cui lavorare. Guarderemo alla biodiversità e alla digitalizzazione dei servizi, per esempio. È importante partire da una sfida locale, perché tutto l’insegnamento avviene tramite la prototipazione. Non ci sono libri o slide. I partecipanti usciranno, faranno interviste e il venerdì presenteranno il proprio lavoro in varie forme».
“Non c’è una sede o una struttura fisica. Siamo agili e andiamo là dove ci sono temi e sfide interessanti”
SI: Ci può fare qualche esempio di prototipi usciti dalle Pop Up School?
Simona Maschi: «Anni fa siamo stati in India, a Kochi, subito dopo una devastante inondazione. Abbiamo lavorato dentro tende incontrando aziende con attività azzerate. In quel contesto si lavora molto nel tessile. La Kerala Startup Mission (l’agenzia attiva nello sviluppo e nell’incubazione di nuove idee di impresa, ndr), ha finanziato la nostra attività di design thinking. Come si lancia una startup in un contesto simile, dove il business può essere distrutto in pochissimi mesi? Cambia tutta la mentalità: invece di comprare i macchinari, magari si affittano. Ma abbiamo ragionato anche su piccole cose: le prese della corrente vanno posizionate a due metri di altezza, per limitare i danni delle inondazioni. Un altro esempio è presente in un progetto pilota dell’ONU in Sri Lanka: è un’app che aiuta le aziende in luoghi a rischio a prevedere le calamità e a supportarsi a vicenda».
SI: Tra gli workshop previsti a Como ne notiamo uno dedicato al metaverso. Uno scettico potrebbe dire che si tratta di una moda. Come lo intendete?
Simona Maschi: «È da oltre un anno che lavoriamo sul metaverso. Come qualsiasi tecnologia, lo intendiamo come strumento per raggiungere soluzioni di sostenibilità. Stiamo sperimentando applicazioni dove l’uso del metaverso porterà a un miglioramento della vita. Alla Pop Up School di Como ne parlerà David Rose, docente al MIT di Boston, già presente con noi in Costa Rica. Lui punta a insegnare proprio il Real-World Metaverse: il mondo reale e il metaverso si incontrano. Crediamo in questo ibrido».
“Spesso il design viene ridotto all’estetica o al ripensare soluzioni a problemi noti. Una nuova sedia risponde a un problema noto”
SI: Il design thinking è un termine spesso abusato e non sempre chiaro. Ce lo può spiegare in parole semplici?
Simona Maschi: «Mi occupo di design thinking dal 1997. Si tratta di un’attività che crea prodotti e servizi che non esistevano prima. È la capacità di immaginare e produrre cose tangibili e non. Spesso il design viene ridotto all’estetica o al ripensare soluzioni a problemi noti. Una nuova sedia risponde a un problema noto. Il design thinking si occupa invece di definire qual è un nuovo problema da risolvere; poi richiede le interviste a persone, aziende e utenti; infine conduce a soluzioni da prototipare. Senza aspettare di aver tutti i dati alla mano. Si prototipa con leggerezza».