La mostra alle Scuderie del Quirinale offre una selezione di oltre cento capolavori salvati durante la Seconda Guerra Mondiale, oltre che un ampio panorama documentario, fotografico e sonoro
Le guerre sono sempre devastanti sia per chi le combatte al fronte sia per l’intera popolazione che deve sopravvivere a ogni tipo di difficoltà oltre a fare i conti con il pericolo dei bombardamenti che dovrebbero colpire punti strategici (come fabbriche o snodi ferroviari) ma finiscono per distruggere in modo indiscriminato case e palazzi. La gente scappa, cercando rifugio in luoghi più sicuri, lontani da obiettivi strategici, magari portandosi dietro le cose preziose e facilmente trasportabili. Cosa deve fare il direttore di un museo o un soprintendente che ha la responsabilità di preservare opere d’arte di inestimabile valore?
Lo impariamo nella mostra Arte Liberata 1937-1947 Capolavori salvati dalla guerra allestita a Roma alle Gallerie del Quirinale. È un commuovente omaggio all’incredibile lavoro di direttori e direttrici di musei, funzionari e funzionarie, ispettori e ispettrici, soprintendenti che, durante la seconda guerra mondiale, hanno spesso rischiato la vita per portare in salvo i capolavori della nostra arte che dovevano essere protetti sia dai bombardamenti, sia dalla cupidigia dei gerarchi nazisti. Mentre il trasporto dei quadri, sculture, arazzi, incunaboli, manoscritti e libri antichi è stato un immane (e spesso avventuroso) sforzo fatto in più riprese durante la guerra, il recupero dei capolavori che erano stati trasportati in Germania, vuoi perché requisiti, vuoi perché acquistati aggirando le leggi che ne proibivano l’esportazione, è stato oggetto di un attento lavoro di ricerca e recupero fatto nel dopoguerra.
L’epopea del salvataggio delle opere d’arte inizia nel giugno 1940 con un telegramma cifrato del ministro Bottai che trasforma i “direttori di gallerie e musei in imballatori di opere d’arte, in trasportatori di casse” come disse Bruno Molajoli, responsabile del patrimonio artistico della Campania, nel 1948. Le casse dovevano essere trasportate senza clamore in luoghi sicuri già individuati in base ad una circolare del Ministero che, nell’ottobre del 1938, aveva anche chiesto alle soprintendenze di identificare i beni di maggior pregio, che avrebbero dovuto essere trasferiti nei rifugi, mentre quelli di alto pregio, ma non trasportabili, perché fragili o troppo grandi, avrebbero dovuto essere protetti in loco.
Quando pensiamo alle precauzioni che vengono prese per il trasporto delle opere d’arte ai giorni nostri, sembra incredibile che una manciata di storici dell’arte, con pochi mezzi ma grande determinazione, abbia potuto trasferire da una parte all’altra dell’Italia in guerra centinaia e centinaia di casse ognuna delle quali conteneva capolavori inestimabili.
Sono rimasta colpita dalle modalità del trasporto di alcune opere esposte alla mostra: ho fotografato la crocefissione di Luca Signorelli accanto alla foto, scattata il 13 agosto 1944, dello stesso quadro appena scaricato dal camion che lo aveva portato, insieme ad altri dipinti fiorentini, a San Leonardo in Alto Adige dove i nazisti avevano un deposito di beni requisiti.
Altrettanto impressionante è il trasporto del Peccato di Adamo ed Eva di Frans Floris da parte dei soldati americani che avevano trovato il deposito di San Leonardo stavano caricando quadri e sculture su un camion. In effetti, il dipinto era risultato danneggiato, come si vede circa a metà di queste riprese che documentano la visita del capitano Deane Keller, esperto americano della squadra dei Monuments Men, al deposito per controllare lo stato dei dipinti. Nelle riprese al minuto 5:25 si vede anche la crocefissione di Signorelli con le stesse fasce protettive.
Le opere trasportate per conto dei musei viaggiavano in modo più sicuro, protette all’interno di casse ma non sempre le condizioni erano ottimali. Giornate su treni merci o su camion, a volte scoperti, erano la norma ed è straordinario che non si siano verificati incidenti nei trasporti che hanno coinvolto migliaia di oggetti. Giovanni Rotondi, soprintendente alle Gallerie delle Marche detiene il record del numero dei pezzi spostati con 10.000 opere, segue Bruno Molajoli, soprintendente alle Gallerie della Campania, che ne movimenta 5.900 e bisogna considerare che spesso le opere sono state spostate più volte perché i rifugi ritenuti sicuri nel 1940 non lo sono più nel 1943, quando l’Italia viene tagliata in due dalla vicende belliche.
Il libro catalogo della mostra intitolato Arte Liberata a cura di Luigi Gallo e Raffaella Morselli, Edizioni Electa, racconta le rocambolesche storie di questi intellettuali trasformati in improbabili Indiana Jones. Tra i nomi dei responsabili dei trasferimenti, per lo più uomini, spiccano quattro donne che hanno operato a Torino, Milano, Roma e Palermo dimostrando capacità straordinarie.
Noemi Gabrielli, giovane ispettrice della Soprintendenza piemontese, otto giorni dopo il telegramma del Ministro nel giugno 1940, si occupa del trasporto delle opere più importanti dei musei piemontesi nei depositi del castello di Guiglia nell’Appennino canavese. Quando la guerra si avvicina al castello rifugio, nel giugno-luglio 1944 bisogna traslocare le casse alla volta di Palazzo Borromeo sull’Isola Bella in mezzo al Lago Maggiore, cosa che implica anche il trasporto su barconi. Alla fine della guerra, Noemi Gabrielli si dedicherà al restauro delle opere d’arte danneggiate dai bombardamenti.
Fernanda Wittgens, prima vice-direttore poi direttore della Pinacoteca di Brera, coordinò il trasporto dei quadri più importanti (ovviamente accompagnandoli) nell’Italia Centrale. A lei si deve la salvezza dello Sposalizio della Vergine di Raffaello, della Cena di Emmaus di Caravaggio, del Cristo morto di Mantegna, che lei chiamava i “capolavorissimi”. Nel giugno 1940, viaggiarono su un treno merci fino a Perugia poi in camion fino a villa Marini-Clarelli. L’inizio dei bombardamenti a Milano nell’ottobre 1942 spinge a fare altri massicci trasferimenti di opere d’arte, sempre scortate da Fernanda Wittgens che l’anno dopo si occupa di un ulteriore trasferimento delle casse a Carpegna. Ma non sarà la fine degli spostamenti perché l’Italia centrale, attraversata dalla linea Gotica, non è più sicura.
Nel luglio 1944 Fernanda Wittgens viene arrestata e imprigionata per attività antifascista: condannata a 4 anni, torna in libertà alla fine della guerra e si dedica alla ricostruzione della Pinacoteca di Brera che verrà inaugurata nel giugno 1950.
La bellissima Palma Bucarelli è ispettrice alla Galleria Nazionale di Arte Moderna dal 1939. Quando, nel 1941, diventa reggente decide di mettere al sicuro tutte le opere trasportandole al castello Farnese di Caprarola. Ha 31 anni e segue personalmente 22 viaggi per mettere al sicuro 97 opere imballate singolarmente e 61 casse con 672 dipinti e 63 sculture. L’incubo “di quadri che si sfondano e sculture che si spezzano” la perseguita. Dopo la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, capisce che Caprarola non è più un rifugio sicuro e le casse devono essere trasferite, questa volta in Vaticano per evitare che finiscano nelle mani dei tedeschi.
Uguale coraggio e determinazione anima Jole Bovio Marconi direttore del Museo Nazionale di Palermo e poi Soprintendente di Palermo e Trapani. Teme che le metope di Selinunte e le grondaie del tempio delle Vittoria di Himera, che sono ospitate al museo, possano essere danneggiate e, benché siano pesantissime, riesce a farle trasportare all’Abbazia di San Martino delle Scale. Il trasferimento finisce il 3 aprile 1943, due giorni prima di un bombardamento che colpisce il museo.
Jole Bovio Marconi rimane al suo posto per fare riparare i danni ed evitare il saccheggio delle opere ed inizia a collaborare con i Monuments Men, il gruppo di 48 tra archeologi, direttori di musei e storici dell’arte che prestavano servizio nell’esercito alleato per evitare la distruzione del patrimonio artistico perché era chiaro a tutti quanto l’Italia fosse una sorta di museo diffuso. Il generale Clark, comandante delle forze alleate diceva “fare la guerra in Italia è come combattere in un maledetto museo d’arte”. Ma i Monuments Men non avrebbero potuto fare molto senza l’incredibile lavoro di questo gruppo di eroi ed eroine che, con grande passione ed altrettanto coraggio, hanno salvato il patrimonio artistico italiano.