L’Italia forma bene le sue menti, ma ha un ascensore sociale fermo e non investe nei talenti dopo la laurea. Un’analisi sui dati del Global Talent Competitiveness Index 2016
Nelle valutazioni del mercato del lavoro, nei settori più innovativi dove la formazione dei nostri giovani è giudicata attraverso criteri internazionali, l’Italia si ritrova classificata nei ranking, nel gruppo dei paesi dalle più modeste performance. Ma a guardare da vicino i criteri che costruiscono queste classifiche, viene fuori che il sistema dell’Education italiano è in un’evoluzione più dinamica rispetto agli altri paesi. Un recente studio, il Global Talent Competitiveness Index (GTCI) 2015-16, vede l’Italia a metà classifica (41 su 109), piazzata mediamente tra i paesi Europei (26esima), sempre nel gruppo di quegli stati che esprimono talenti ma non realizzano il circolo virtuoso per attrarre quei profili che non solo lavorerebbero nelle nostre aziende che cercano gli altamente qualificati, ma potrebbero investire, creare startup, lavorare nella ricerca, arricchire il tessuto produttivo.
La top 3 dei talenti
I tre paesi migliori in termini di competitività dei talenti sono la Svizzera al primo posto, seguita da Singapore e Lussemburgo, rispettivamente secondo e terzo classificato, nei primi dieci paesi seguono Stati Uniti, Danimarca, Svezia, Regno Unito, Norvegia, Canada, e Finlandia. I paesi classificati hanno dimostrato un’ottima apertura in termini di mobilità dei talenti – circa il 25% della popolazione svizzera e del Lussemburgo è nato all’estero; la percentuale sale al 43% a Singapore. Nella top 20 si registra l’ingresso della Repubblica Ceca (20esima) nel gruppo dei paesi virtuosi, una maggiore circolazione dei talenti in Nuova Zelanda, mentre scende un poco la performance di Canada e Irlanda, rispetto al 2014.
La posizione dell’Italia
Ma uscendo dalla classifica, questo indice globale sulla competitività dei talenti presenta dei dati interessanti che riguardano proprio l’Italia, in particolare nel processo della formazione, in relazione al nostro sistema educativo sino all’università. Infatti noi risultiamo tra i paesi che formano bene i propri giovani dalla scuola al primo ciclo dell’università, e ne fanno quindi dei potenziali talenti. Ma andiamo ai dati: la scheda paese che ci riguarda, a fronte della 41esima posizione, si sofferma sulla formal education (tutto il sistema di formazione scuola e università) dove risaliamo la classifica sino a quota 24; anche la valutazione delle nostre università, in passato fanalino di coda di tutte le classifiche internazionali, pare migliorata, infatti conquista la 25esima posizione in questo rapporto. Lo stesso vale per le scuole di management, le Business School, che hanno mostrato negli ultimi anni un maggiore dinamismo di altre, anche a livello internazionale europeo.
Cosa ci blocca?
Cosa ostacola la circolazione dei talenti, in entrata e in uscita nel nostro Paese? Una mobilità sociale quasi paralizzata: il famoso ascensore sociale non è attivo, e ciò impedisce alle generazioni più giovani di avere carriere migliori di quelle dei propri genitori, se non appartengono a classi sociali con più mezzi economici e culturali (il dato è confermato dall’Ocse nel rapporto 2015 Education at a Glance). Questo dato ci mette proprio in fondo alla classifica, valutando la social mobility italiana a quota 90 su 109. Rimaniamo a metà classifica sull’inclusione sociale, in riferimento al livello di tolleranza degli immigrati (53) e delle minorante etniche (43). Tra le righe anche questo studio sottolinea un’occasione mancata per un paese come il nostro che dovrebbe formare i tanti immigrati che ha accolto, alcuni con una cultura di base interessante, ma che deve ancora affrontare le difficoltà d’integrazione. Manteniamo posizioni dignitose sull’uso dei social network (37) e dei network professionali (27). Ma ciò che ci caratterizza come paese davvero poco attrattivo, sia in entrata che in uscita, è il livello superiore della formazione universitaria, quello che internazionalmente è chiamata Tertiary education, risultiamo 71esimi per investimento nella specializzazione universitaria, nel livello master e dottorato; e anche la nostra forza lavoro dotata di una specializzazione, con competenze di alto livello richieste dal mercato, è valutata a quota 66.
Abbiamo i talenti ma…
La capacità di formare talenti in Italia sembrerebbe salda, valutando anche alcune contraddizioni presenti in questi studi. Per esempio abbiamo sì un alto potenziale, ma non siamo al livello degli altri paesi europei per quanto riguarda la formazione professionale, anche se in questo o studio su Labour and Vocational Skills – lavoro e formazione professionale – siamo ben classificati a quota 18 su 109 Paesi. Ma se scuola e università sono di buon livello e abbiamo una ricerca scientifica di alta qualità, non possediamo abbastanza high skilled, quelli che dovremmo formare dopo la laurea, e che non muovono il mercato del lavoro interno, e non vanno fuori dall’Italia a ricoprire le posizioni richieste per gli altamente qualificati, in più siamo prigionieri, di un mercato del lavoro chiuso, rispetto alla mobilità geografica, che non incrementa lo spostamento di lavoratori, esperti e dirigenti all’estero, e quindi non li attira, e con un sistema di tassazione che in questo studio ci mette proprio una maglia nera addosso: 107esimo posto su 109.
Cosa ci chiedono gli analisti internazionali? Claudia Costin, Senior Director for Education at World Bank, ha fatto sentire il suo punto di vista in merito alle competenze chiave che i professionisti più giovani devono acquisire per contribuire alla competitività del proprio paese, alla crescita sociale ed economica: “La formazione universitaria superiore non solo è un potente motore per la costruzione di una società migliore, per la produttività e la crescita – commenta Costin – ma contribuisce a una terza missione, fare evolvere le comunità. Attraverso le avanzate conoscenze, abilità e competenze, e con la ricerca scientifica di base e applicata si fa funzionare al meglio un intero sistema: le istituzioni interagiscono tra loro, i datori di lavoro con le imprese e istituti di ricerca, insieme con il livello d’istruzione più basso. Se queste connessioni non funzionano, è difficile per le università raggiungere i propri obiettivi, soprattutto sociali e politici”.
L’impegno sui poli di ricerca, i cluster territoriali, diventa sempre più importante; il collegamento tra il territorio e i luoghi del sapere formali e informali in Italia è iniziato, è in fase di sviluppo ma dobbiamo metterci in pari almeno con paesi a noi vicini, per esempio Francia, Germania e Spagna, molto forti nell’integrazione tra formazione e territorio.
Il collegamento col lavoro
L’altro grande tema affrontato dall’analista della World Bank è il collegamento tra formazione al mercato del lavoro, che anche gli autori del Global Talent Competitiveness Index hanno posto tra le tematiche principali. Paul Evans, professore emerito in Risorse Umane, titolare della cattedra Shell all’Insead e co-redattore del rapporto nota che: “Una delle più interessanti conclusioni di quest’anno si concentra proprio su una rinnovata importanza attribuita all’apprendimento professionale, che deve essere integrato nell’insegnamento a partire dalla scuola superiore. In Svizzera – continua Evans – il paese al primo posto di quest’indice, la questione dell’occupabilità è affrontata molto presto a scuola. Dai 15 anni in poi, più del 70% degli allievi sceglie la strada dell’apprendimento professionale concentrandosi sull’esperienza professionale pratica. All’interno del governo svizzero, la metà dei ministri è uscito dalla filiera professionale. Per essere competitivi nel futuro nel mercato dei talenti, è necessario considerare la formazione professionale, e l’occupabilità dei propri giovani molto più seriamente, e investire su questo”. La legge italiana sull’alternanza scuola lavoro è ancora molto giovane, ma va nella direzione indicata dall’analista dell’Insead, proveremo a confrontare i nostri dati tra qualche anno.