Le abilità non crescono a un ritmo costante. Migliorarle è come guidare lungo un sentiero di montagna. Più in alto saliamo, più la strada diventa ripida e i nostri progressi sempre più piccoli. Quando esauriamo lo slancio cominciamo a bloccarci. Non basta premere il pedale dell’acceleratore: le ruote girano ma abbiamo smesso di muoverci.
Dopo aver analizzato a fondo più di un secolo di dati sul progresso, gli scienziati cognitivi Wayne Gray e John Lindstedt hanno notato un arco molto interessante: quando le nostre prestazioni ristagnano, prima di migliorare di nuovo subiscono un declino. Nei casi in cui le abilità delle persone si sono arenate – in attività che vanno dal Tetris al golf fino alla memorizzazione di fatti – di solito risalgono solo dopo essere peggiorate. Quando raggiungiamo un vicolo cieco, per andare avanti potremmo dover ridiscendere a valle e solo se arretriamo della giusta distanza possiamo trovare un’altra strada – un percorso che ci permetta di creare lo slancio necessario a raggiungere la vetta. Spesso è difficile accettare di dover retrocedere. Arretrare significa abbandonare il piano attuale e ricominciare daccapo. È questo che provoca un calo temporaneo delle prestazioni: la scelta di rinunciare alle conquiste fatte.
La scelta di regredire per progredire. «Quando vengono inventati, testati, rifiutati o accettati nuovi metodi le prestazioni ne risentono», spiegano Gray e Lindstedt. È dopo «l’adozione di un nuovo metodo efficace… che ci porta a superare i traguardi precedenti» che possiamo finalmente risalire. Per trovare il metodo giusto bisogna procedere per tentativi ed errori. Alcuni tentativi saranno puri e semplici errori: avremo perso tempo in strategie sbagliate.
Ma anche se troviamo un metodo migliore, è molto probabile che all’inizio la nostra inesperienza ci porti a peggiorare. Questi passi indietro non sono solo normali: in molte situazioni sono indispensabili.
Se per scrivere un testo al computer usiamo solo due dita, non andremo oltre le trenta-quaranta parole al minuto. Per quanto possiamo allenarci, arriveremo comunque a sbattere contro quel muro. Per raddoppiare il nostro ritmo fino a sessanta-settanta parole al minuto dobbiamo provare un altro metodo: usare il tatto invece della vista.
Ma prima di accelerare dobbiamo rallentare. Ci vuole tempo per imparare a memoria la posizione dei tasti. Le abilità più avanzate hanno curve di apprendimento più ripide. Nel caso del cubo di Rubik il metodo più semplice è procedere strato per strato: si fa una croce blu su un lato, poi la si ruota per riempire gli angoli e si comincia a lavorare sul lato successivo; dopo circa 130 mosse il gioco è fatto. Se voleste procedere più in fretta dovreste memorizzare una serie di algoritmi. All’inizio ci metterete di più, ma alla fine vi basteranno sessanta mosse. Nel processo dovrete ricostruire anche la vostra memoria muscolare, eliminando le vecchie abitudini per far posto a quelle nuove.
Uno degli aspetti più sorprendenti del fare marcia indietro è che può preparare il terreno a un miglioramento anche in assenza di intenzionalità. In uno studio su oltre ventottomila partite di basket dell’NBA, i ricercatori hanno cercato di capire quale effetto avessero sulle squadre gli infortuni dei loro giocatori di punta. Come previsto, le squadre peggioravano. Ma, una volta rientrato in campo l’asso del team, hanno vinto ancora più partite di quante ne avessero vinte prima dell’infortunio. Perché la perdita del miglior giocatore le ha aiutate a migliorare? Senza le loro punte, le squadre hanno dovuto ricominciare da zero e cercare nuovi sentieri verso il successo. Hanno riorganizzato i ruoli per consentire ai giocatori secondari di emergere e hanno elaborato nuovi schemi per sfruttarne i punti di forza. Quando la star è tornata in campo, il bilanciamento dei tiri è migliorato: i componenti non dipendevano più da un unico eroe in grado di trascinare l’intera squadra.
È emerso uno schema simile anche nelle squadre della National Hockey League dopo l’infortunio di un giocatore: più le squadre hanno sperimentato formazioni che mettevano in campo giocatori diversi, migliori sono state le loro prestazioni.
Non dovremmo aver bisogno di un evento estremo come un infortunio per capire che è il caso di fermarci, fare marcia indietro e cambiare rotta. Ma la verità è che spesso abbiamo paura di andare all’indietro. Per noi rallentare significa perdere terreno, indietreggiare significa arrendersi e fare marcia indietro significa smarrire la rotta. Temiamo che facendo un passo indietro perderemo del tutto l’equilibrio. E così rimaniamo esattamente dove siamo: stabili ma bloccati. Dobbiamo accettare il disagio di perderci.
La retromarcia ci conduce in acque inesplorate. Imbocchiamo un sentiero sconosciuto verso una meta che non abbiamo mai visitato, e all’inizio la cima potrebbe non essere nemmeno visibile. Per trovare la strada abbiamo bisogno di un’impalcatura, e precisamente di alcuni strumenti di navigazione di base. La cattiva notizia è che non esistono mappe perfette: nessuno ha tracciato con esattezza il nostro percorso, e potrebbe anche non esserci alcun sentiero; la strada potremmo dovercela aprire da soli, individuando il percorso man mano, svolta dopo svolta. La buona notizia è che per metterci in movimento non abbiamo bisogno di una mappa: tutto ciò di cui abbiamo bisogno è una bussola che ci faccia capire se stiamo andando nella direzione giusta.
A seconda dell’abilità che state cercando di acquisire, potreste trovare la vostra bussola in un libro, sul web o nel corso di una conversazione.
Una buona bussola vi segnala se state andando fuori rotta e vi orienta verso una direzione migliore. Se state imparando a programmare in C++ e vi bloccate, la vostra bussola può essere una rapida ricerca online che vi metta sulle tracce di Python: è più facile da imparare e altrettanto efficace per portare a termine un’ampia gamma di progetti. Se i vostri dipinti a olio continuano a riempirsi di grumi, la vostra bussola può essere una chiacchierata con un artista esperto che vi suggerisce un solvente per diluire i colori. E se siete un lanciatore di baseball che cerca di uscire da quello che sembra essere un crollo permanente, la vostra bussola potrebbe essere un allenatore che vi dice che la vostra dritta è troppo lenta e vi fa puntare su un altro tipo di lancio.
Quando non siamo sicuri del percorso da seguire per raggiungere un obiettivo, spesso chiediamo indicazioni a una guida esperta. È un mantra che conosciamo bene: se vuoi eccellere, impara dai migliori.
Prendiamo lezioni di cucina da una grande chef. Mandiamo i nostri figli a lezione di tennis da un professionista. Convinciamo un fuoriclasse del nostro settore a farci da mentore e impariamo a seguire le sue orme. Che cosa può esserci di meglio di una prima lezione di fisica con Einstein?
Non poco, a quanto pare. In uno studio molto arguto alcuni economisti hanno deciso di scoprire se è vero che gli studenti imparino di più dagli esperti. Hanno raccolto dati su tutte le matricole della Northwestern University dal 2001 al 2008 e cercato di capire se gli studenti il cui corso introduttivo era stato tenuto da docenti più qualificati avessero ottenuto risultati migliori al secondo corso di quella materia. Si potrebbe presumere che per gli studenti sia meglio acquisire le nozioni di base da un esperto (un professore associato o ordinario) piuttosto che da un non esperto (un docente con conoscenze meno specialistiche). Ma i dati hanno dimostrato il contrario: gli studenti che avevano frequentato il corso iniziale con un esperto hanno ottenuto voti inferiori nel corso successivo. Lo schema è emerso con forza in tutti i campi: gli studenti imparavano meno nei corsi introduttivi tenuti da esperti della materia, qualunque essa fosse. È rimasto stabile nel tempo – su più di quindicimila studenti – e si è riproposto sia nei corsi con esami più difficili sia in quelli con esami più facili. In particolare, gli esperti erano stati meno bravi a insegnare agli studenti con una minore preparazione accademica.
A quanto pare, quando percorriamo una nuova strada i massimi esperti sono spesso le guide peggiori possibili. Ci sono almeno due ragioni per cui gli esperti non riescono a dare buone indicazioni ai principianti. La prima è la distanza che hanno percorso: hanno fatto troppa strada per ricordarsi come ci si sente nei nostri panni. È nota come «maledizione della conoscenza»: più ne sappiamo, più facciamo fatica a capire che cosa prova chi non sa. Come sintetizza la scienziata cognitiva Sian Beilock: «Man mano che diventiamo più bravi e miglioriamo in ciò che facciamo, la capacità di comunicare la nostra conoscenza o di aiutare gli altri ad apprendere quell’abilità tende a peggiorare sempre più». […] Invece di aiutarci a trovare la nostra strada, le indicazioni delle guide esperte possono bloccarci. Ancora peggio: possono darci la sensazione che siano i nostri stessi limiti a impedirci di progredire.
Se chiedere istruzioni rudimentali ai massimi esperti non è la mossa migliore, anche affidarsi a un’unica guida è sbagliato. Nessuno può conoscere il nostro percorso nei minimi particolari. Ma se raccogliamo indicazioni da più guide diverse, queste possono combinarsi per rivelare percorsi che non avevamo visto. Più incerto è il percorso e più alta è la vetta, maggiore sarà il numero di guide di cui avremo bisogno. La sfida consiste nel mettere insieme tutti questi consigli per tracciare un percorso che faccia veramente al caso nostro.
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Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro Il potenziale nascosto (Egea) dello psicologo Adam Grant.
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