Fondatore dell’Osservatorio Civic Brands, lo scrittore pubblicitario ci ha spiegato come aziende, grandi o piccole, devono comunicare con i consumatori. Evitare di rincorrere i meme. «Bisogna occuparsi dei grandi temi, ma anche del quotidiano delle persone»
«Vorrei essere un po’ autarchico». Perché siamo tutti bravi a pescare gli esempi migliori dall’estero. Quando si tratta di pubblicità, campagne che lasciano il segno, messaggi e prese di posizione dei brand che arrivano dritti al cuore e alla mente di consumatori e consumatrici, vengono in mente i soliti. Nike, Patagonia (citate i vostri, a memoria). Invece Paolo Iabichino, scrittore pubblicitario e Fondatore dell’Osservatorio Civic Brands con Ipsos Italia, vuole partire dal nostro paese e dalla sua storia recente e antica. «Vent’anni fa da noi non si faceva civismo d’impresa. Ma duecento anni fa sì». Oggi, mercoledì primo marzo, alla Triennale di Milano è in programma No Purpose, No Party, evento che spiegherà come le aziende tutte – dalle multinazionali a quelle che sono ancora soltanto idea su carta – debbano approcciarsi alla comunicazione con l’esterno, partendo dall’interno. Sul palco interverrà anche il Ceo di StartupItalia, Dario Scacchetti, per dare l’angolazione delle startup quando si tratta di Civic Brand.
Bene comune
«Nel 1750 non si parlava certo di marca, ma la prima cattedra di economia al mondo, a Napoli, venne affidata ad Antonio Genovesi. Economia civile, così si chiamava. Perché l’obiettivo era fare mercato, pensando anche al bene comune». Da allora sono trascorsi una fetta della storia moderna e tutto il Novecento, con i suoi stravolgimenti e i suoi paradigmi. «Anche i nostri migliori imprenditori obbedivano a logiche capitalistiche. Eppure nomi come Olivetti, Pirelli, Barilla, Ferrero hanno trattenuto le lezioni di Genovesi».
L’autorevolezza di nomi simili non deriva da attività che oggi si potrebbero definire di brand activism, magari sporadiche e organizzate in una sorta di piano editoriale per cavalcare sempre i trend e le ricorrenze più pop. «Quando bisogna proteggere soltanto l’azienda e il profitto non si guarda al bene comune. Il civismo di marca ha dovuto aspettare una pandemia e l’ultimo stadio di alcune emergenze, come quella climatica, per affermarsi non più come make up narrativo».
“Nessun Ferrero ha creato un’azienda di successo per venderla dopo 20 anni”
Grandi temi, temi quotidiani
I brand che si occupano del bene comune secondo Iabichino non sono quelli che si occupano dei grandi temi solamente: crisi climatica, razzismo, discriminazioni. «Se le studentesse di un liceo protestano per l’IVA sugli assorbenti occorre dedicarci attenzione. In questo momento, che piaccia o meno, chi consuma chiede alle aziende una maggiore attenzione ai temi alti ma anche ai temi del quotidiano». Lavoro che va ben oltre il claim di una semplice campagna pubblicitaria contro l’inquinamento della plastica.
«Quello che però voglio dire è che non è mai troppo tardi», rassicura Iabichino. Anche perché il primo lavoro da fare non è sintonizzarsi con l’ultima moda. Bisogna partire dal purpose, dallo scopo originario di un’azienda. «Io lo definirei come uno scavo archeologico nell’identità e vocazione originaria di ogni impresa. Il purpose raggruppa i motivi per cui quell’impresa è nata, la scintilla iniziale. Lì c’è un tesoro. Nella migliore delle ipotesi è ricordarsi in che modo e perché si è voluto migliorare la vita delle persone».
“Quando storytelling e algoritmi si incontrano si finisce per premiare i click emotivi”
Startup, come comunicate?
Il civismo di impresa riguarda la pubblicità, ma più in generale lo stare di un soggetto privato all’interno di un contesto collettivo, in cui occorre occuparsi del bene comune. «Certo che c’è l’obiettivo di vendita per ogni azienda, ma alle startup vorrei suggerire di pensare in un’ottica diversa. Non dovrebbero guarda alla exit. Nessun Ferrero ha creato un’azienda di successo per venderla dopo 20 anni. Ma lo notiamo già: le imprese che stanno nascendo hanno chiara la logica generativa e non più estrattiva». Da come lo descrive Iabichino, il civismo di marca non significa esporsi su ogni tema, ma prendere posizione quando è necessario per il purpose. «Il primo Super Bowl dopo le elezioni di Donald Trump alla Casa Bianca ha fatto scuola: è in quel momento che si conia il termine brand activism. Nike, Airbnb, Coca Cola e molti altri hanno preso posizioni contro l’allora presidente degli Stati Uniti».
Memizzazione della pubblicità
Gli sforzi da attuare, secondo l’esperto, vanno ben oltre il suscitare emozioni nei consumatori, con il classico spot strappalacrime a uso social. «È tutto il mondo della comunicazione, non soltanto della pubblicità, che ha mercificato le nostre emozioni. Quando storytelling e algoritmi si incontrano si finisce per premiare i click emotivi». C’è un termine per questo secondo Iabichino: iper-narrazione. «È un modo di raccontare che fa leva su un certo tipo di pornografia emotiva, che finisce poi per condizionare le reazioni, ma sono appunto reazioni in un click».
Il civismo di marca non è una legge scritta e di questi tempi secondo Iabichino non è proprio il caso di sventolare insegnamenti. «Lo scrivere civile è un fatto di postura, come dice Baricco. È un atteggiamento. E il miglior modo per farlo è sperimentando». Magari andando controcorrente, provando una nuova narrativa che non insegue la memizzazione che abbonda sui social. «Lasciamo perdere i vezzi ortografici e le banalità sul politicamente corretto. Il civismo di marca deve essere nel modello di business».