C’è un affascinante podcast, si chiama Giornaliste ed è il luogo in cui sei giornaliste e scrittrici di oggi raccontano le loro icone del passato, sintetizzandone il potentissimo lascito. Curato da Annalisa Camilli e prodotto da Storielibere.fm e Fondazione Circolo dei Lettori, Giornaliste racconta professioniste che hanno voluto narrare le guerre andando sul campo, che attraverso la parola e la fotografia hanno sfidato i poteri, che hanno fondato riviste e quotidiani in un secolo in cui farlo era anche una forma di ribellione, che hanno saputo cavalcare ogni genere di forza, persino quella del sense of humour, per tracciare strade nuove alla professione per cui sentivano di essere nate. Sono donne che hanno dato un contributo straordinario al giornalismo, ma alcune di loro sono dimenticate.
Come Susan Sontag raccontò la guerra e il dolore
Il podcast ha debuttato con Susan Sontag, un’intellettuale, una scrittrice, una filosofa, una critica d’arte e una giornalista che ha scritto pagine cruciali sull’essere giornalista nelle situazioni di conflitto, sulla guerra e sulla sua rappresentazione e su come ci si deve porre davanti al dolore degli altri: “Si tratta di un’ossessione che Susan Sontag ha portato avanti tutta la vita”, dice Annalisa Camilli nel raccontarla come “un modello di intellettuale completamente immerso nella realtà del suo tempo e che si ribella a ogni forma di passività”. Nel podcast, Camilli sosta sulle 11 volte che Sontag andò a Sarajevo nel corso dei 1429 giorni che durò l’assedio, il più lungo della storia moderna, e lo fece con l’attitudine dello scrittore “che deve esporsi, deve mettersi a nudo e deve portare se stesso, il suo corpo sulla linea del fuoco”. Lì, mise in scena Aspettando Godot di Samuel Beckett sotto i bombardamenti. La curatrice del podcast si sofferma, quindi, sul saggio Sulla fotografia, nel quale Sontag riflette sulla capacità delle immagini di allertare le coscienze, a partire dall’istante in cui ricorda di averla sentito forte su di sé quando, nel 1945, in una libreria di Santa Monica vide per la prima volta le fotografie dei lager, che per lei diventarono un potente spartiacque. Da quel momento, la giornalista prese ad analizzare in maniera cruda la fotografia e l’onnipresenza dell’immagine, che se era sì un modo immediato per suscitare sensazioni, contemporaneamente si rendeva disponibile a spettacolarizzare il dolore, finendo per normalizzare persino l’orrore.
Il Novecento americano visto da Dorothy Parker
Tutt’altro genere di forza è svelata da Annalena Benini, giornalista e scrittrice, che nel podcast racconta il talento caustico con cui Dorothy Parker, scrittrice, poetessa, giornalista, commentò sulle riviste patinate i primi decenni del Novecento americano. Ironica, dissacrante, mordace, attraverso il sense of humour con cui stroncava gli spettacoli teatrali che recensiva ha esercitato, dice Benini, “il potere della brillantezza. La novità rispetto al panorama delle donne che scrivevano in quegli anni fu la scoperta dell’Io: Dorothy Parker scriveva in prima persona, un Io lieve, sagace, brioso, mondano, ma carico di sofferenza e del senso di ingiustizia per la condizione delle donne del suo tempo. Ma Dorothy Parker ha sempre trovato qualcosa di cui ridere: anche nelle tragedie più amare è stata capace di far ridere, ridere della vanità, dello snobismo, della frivolezza, della gelosia”, persino dell’incapacità delle donne di solidarizzare tra loro.
In un momento in cui la libertà delle donne cominciava a farsi strada, lei è stata una delle prime a esercitarla al massimo, “ma era ancora una libertà embrionale e quindi molto difficile da maneggiare”, commenta Benini, convinta, però, che nel mettere in ridere la condizione dolorosa delle donne, in Dorothy Parker questa condizione acquistava già una grande forza, presupposto, questo, perché le cose finalmente cambiassero.
Alba de Céspedes diede voce alle donne del suo tempo
Parla della scrittura come una forma di liberazione anche la scrittrice Nadia Terranova, sgranando la vita e le opere di Alba de Céspedes, scrittrice di gran successo, giornalista, poetessa, sceneggiatrice, autrice per il teatro e la radio, e partigiana, tanto che la sua prima esperienza di scrittura avvenne come staffetta. Terranova ricorda quando, dopo l’8 settembre, arrivò in Puglia, sola donna tra diversi uomini, e a Radio Bari – con il nome Clorinda e camuffando il suo accento per non essere riconosciuta – incitò alla resistenza, cercando soprattutto di spingere le donne. Il suo primo racconto – dice Terranova – esce firmato con il suo nome puntato perchè chi legge non si accorga che a scrivere è una donna, cosa che ne avrebbe alterato il giudizio, non diversamente da come spesso accade ancora oggi. Nel dopoguerra, Alba de Céspedes fonda la rivista Mercurio e scrive poi i romanzi Dalla parte di lei e Quaderno proibito, campioni di vendite, anche se lei detestava l’etichetta di scrittrice commerciale. De Céspedes ha incarnato le donne del suo tempo: “Lei sentiva che c’era qualcosa di sopito dentro le case e questo è il dato comune a tutti i suoi libri: sente che c’è qualcosa che può essere risvegliato e si sente chiamata a risvegliare le coscienze”, commenta Terranova. “Scrive Quaderno probito su una donna degli anni Cinquanta la cui vita cambia quando decide di comprare un quaderno nero, inno al potere sovversivo della scrittura delle donne”.
Oriana Fallaci, Matilde Serao, Gerda Taro
Chi fece letteralmente il giro del mondo alla scoperta della condizione femminile fu la più grande giornalista italiana del Novecento e prima cronista di guerra, Oriana Fallaci, che nel podcast viene raccontata da Eva Giovannini.
Simonetta Sciandivasci ricostruisce, invece, la storia di Matilde Serao, la prima donna che in Italia fondò e diresse un quotidiano, a fine Ottocento, mentre Helena Janeczek fa rivivere Gerda Taro, la prima fotoreporter a morire facendo il suo lavoro sul campo di battaglia durante la guerra civile spagnola.
Il podcast Giornaliste si può ascoltare qui.