Il femminismo intersezionale è un approccio al femminismo che sta guadagnando terreno nelle università, che attraversa i social costruendo comunità e connota sempre più le narrazioni delle attiviste più giovani. Di cosa si tratta? Perché ha successo? E dove porterà? Ecco la radiografia del femminismo del momento, che punta a superare il genere per mettere sotto attacco l’intero sistema, con tutte le sue oppressioni e disparità.
Femminismo intersezionale: cosa significa?
Diciamolo subito: il nome chiama in causa le scienze matematiche. Secondo chi pratica il femminismo intersezionale, le discriminazioni non viaggiano su linee parallele o, comunque, destinate a non incontrarsi mai. È il contrario. Le discriminazioni si intersecano (da qui l’aggettivo intersezionale) in un reticolo di intrecci che restituiscono l’interdipendenza di tutte le ingiustizie, le quali impattano a molteplici livelli l’una sull’altra e il più delle volte in modo simultaneo. Insomma, è sbagliato insistere sulla lotta di genere: non la si vincerà mai finché la si tiene isolata dentro il ring maschi-femmine. Al contrario, secondo questo approccio il femminismo, se vuole veramente essere inclusivo perseguendo l’uguaglianza di genere, deve affrontare le diverse e più ampie sfaccettature della disuguaglianza.
L’evoluzione del femminismo vista da vicino
Secondo il femminismo intersezionale le esperienze delle donne non sono uniformi, perché sono influenzate dalle plurime identità di cui ciascuna è portatrice – per esempio, quella di razza o quella di orientamento sessuale -, e che si intersecano tra loro. Di conseguenza, esistono anche plurimi livelli di oppressione possibile che si intersecano, tante quante sono, appunto, le identità. Quindi oppressione di genere sì, ma anche di razza, di orientamento affettivo, di ceto sociale, di religione, di abilità… Questa variante del femminismo punta, dunque, a scardinare le dominanze messe in atto dai maschi sulle femmine, ma anche quelle delle persone bianche sulle nere, di quelle abbienti sulle povere, e poi le discriminazioni delle persone eterosessuali sulle omosessuali, delle cis-gender sulle trasgender, di chi è abile rispetto a chi, invece, porta una disabilità… «Il femminismo intersezionale non lascia indietro nessuna persona», si legge negli scritti dell’autrice e attivista afro-americana Bell Hooks. «Si tratta di riconoscere che l’oppressione e la disuguaglianza prendono forma in modi diversi per diverse persone, a seconda delle loro identità sociali».
Il femminismo intersezionale riconosce, dunque, le discriminazioni come conseguenze multidimensionali dell’ingiustizia strutturale che innerva il mondo. Morale: le battaglie per la parità di genere sono sterili (ma anche ingiuste) se non le si si interseca con le grandi questioni razziali che affliggono l’umanità, i temi di classe, dell’identità di genere, della comunità LGBTQ+… «Nel femminismo intersezionale, riconosciamo che non possiamo liberarci del razzismo senza combattere anche il sessismo, e viceversa», commenta, per esempio, l’attivista afroamericana statunitense Angela Davis. E la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie: «Il femminismo intersezionale non riguarda solo le donne, ma riguarda tutti e tutte noi, perché siamo parti della lotta per un mondo più giusto e più equo».
Due altri punti forti del movimento
Il femminismo intersezionale compie un ulteriore affondo, sforzandosi di includere le donne con identità marginalizzate, vittime di sistematica esclusione. E, infatti, le radici del femminismo intersezionale datano agli anni Settanta, quando femministe nere e/o lesbiche cominciarono a rivendicare di subire una doppia oppressione e di essere discriminate dalle altre attiviste, bianche ed eterosessuali. Fu l’attivista e giurista americana Kimberlé Crenshaw, negli anni Ottanta, a sistematizzare queste connessioni. Oggi il femminismo intersezionale stimola le donne a diventare consapevoli dei propri previlegi, quando ci sono, e delle disuguaglianze che attraversano lo stesso movimento femminista. Per la medesima ragione, incoraggia leadership inclusive, che si mettano in ascolto di tutte le donne e ne rappresentino in pieno le diversità.
Cosa succede in Italia
Questa evoluzione del femminismo sta guadagnando sempre più terreno anche nel nostro Paese, dove ha fatto leva sui social network per creare una comunità il più possibile inclusiva. Le attiviste sono particolarmente impegnate nella lotta alla violenza di genere, considerando anche che le donne appartenenti a minoranze etniche piuttosto che quelle con disabilità sono ancora più vulnerabili. Questo approccio al femminismo ha anche incoraggiato una sempre più forte consapevolezza delle disuguaglianze sociali nel nostro Paese, che si esprimono nelle minori opportunità economiche, professionali, educative, sanitarie di considerevoli parti della popolazione.
Non è l’uomo il nemico
Certamente, anche in Italia la narrazione del femminismo intersezionale punta a superare, nell’impegno contro le discriminazioni, il solo confronto di genere. Scrivono sul sito di Non Una di Meno Andriana e Alice del Collettivo Femminista Grrramigna: «Se seguiamo i vari assi di oppressione dal lato dei privilegiati, incontriamo un personaggio ben preciso: un uomo cis ed eterosessuale, bianco e benestante, adulto, con un corpo funzionale, e tutta una serie di stereotipi accessori che lo caratterizzano (per esempio, ama il calcio, ha un carattere forte ed estroverso, ha avuto moltissime amanti, ma ora sta mettendo su famiglia con una bella fidanzata/moglie). In spagnolo, si chiama sinteticamente l’uomo BBVA, come la banca, neanche a farlo apposta: Blanco, Burgués, Varón (maschio), Adulto. È quindi questo il nemico del femminismo intersezionale? No, il nostro scopo non è eliminare o soggiogare le persone che abbiano queste caratteristiche; il nostro nemico è il sistema stesso, gli assi di oppressione che mettono su un piedistallo l’uomo BBVA. Vogliamo far saltare per aria il piedistallo, non l’uomo. Anche perché non è una bella cosa stare sul piedistallo: c’è sempre il rischio di cadere di sotto».