Il Giambellino è un quartiere del quadrante sud-ovest della città di Milano che corre a cavallo del Naviglio grande e di due principali arterie di asfalto, via del Giambellino e via Lorenteggio.
Famoso per il bar decantato da Gaber ma anche per la sua tradizione operaia, nel secolo scorso ospitava diverse fabbriche lungo le acque del Naviglio e ha vissuto uno sviluppo edilizio mirato all’accoglienza di lavoratori che arrivavano da tutta Italia. Si tratta di un quartiere che ha attraversato diverse epoche di difficoltà, segnate da povertà, criminalità e abbandono da parte della classe politica che identificava, e spesso identifica anche oggi, le periferie come destinazioni dormitorio per i ceti economici più bassi, con pochi investimenti sulla casa, sui servizi e sul verde.
Ma se le città sono fatte di cemento, strade, palazzi, semafori, tram e rotonde, che basta ricostruire o “rigenerare” per alimentare una narrazione pigra che sembra parlare della città solo per sentito dire, i quartieri sono fatti di persone e al Giambellino le persone hanno dovuto imparare a essere resilienti e resistenti. Fino a oggi.
Il passato in diverse epoche del quartiere
Questo ci ha portati a voler conoscere e interrogare due testimoni di storia locale, due pezzi di memoria storica che hanno visto il quartiere evolversi, fino ad arrivare a essere frontiera del progetto di rigenerazione Giambellino-Lorenteggio che prevederà l’apertura di quattro fermate della nuova linea della metro M4 (Tolstoi, Frattini, Gelsomini, Segneri e San Cristoforo).
La percezione del passato non è la stessa per tutti, in quanto figlia di soggettività e storia, e ha in alcuni casi un’aura positiva, come per Silvana Fusar Poli che ha costruito qui una famiglia numerosa e ricorda negli anni ’60 un quartiere vivo, dove c’era «all’angolo della strada il carretto dei gelati e delle granite, dove andavamo a fare due chiacchere con gli amici nelle sere d’estate» o il chiosco dei fiori che poi si sposterà in piazza Napoli; in altri casi, i ricordi sono meno rosei, come per Ulla Manzoni che, arrivata in quartiere negli anni ’80, aveva conosciuto un’area caratterizzata da diverse problematiche, dove spesso ai giardinetti si incontravano persone vittime di dipendenze e disagio sociale.
Nei ricordi di Silvana, lungo via degli Apuli e via Odazio, c’era il lattaio, il salumiere, il macellaio, l’edicola e diversi panifici, e lo stesso mercato comunale era ricco di tanti esercizi commerciali.
E, soprattutto, «si poteva fare tutto in quartiere, senza bisogno di spostarsi e si girava a piedi tranquilli» Silvana Fusar Poli.
Ulla invece era arrivata in una realtà più complessa, in tempi in cui la città, bramosa di uscire dall’atmosfera buia della strategia della tensione, si sperimentava nel gettare i primi semi per quella corsa caparbia e inarrestabile verso lo sviluppo incontrollato di cui parla Lucia Tozzi ne “L’invenzione di Milano”, e non si curava delle periferie più popolari, bisognose di investimenti e servizi.
Milano era caratterizzata da diverse aree di povertà, disagio sociale e spaccio e il Giambellino non era da meno, considerato uno dei mercati dello spaccio d’eroina più grandi d’Italia.
Quindi Ulla si era rimboccata le maniche e, insieme al medico di zona e alla Caritas locale, aveva iniziato a fare volontariato con le vittime di dipendenza in strada, per poi portare il suo contributo anche nelle case popolari e in quelle occupate. Attività che avrebbe portato avanti tutta la vita, dedicando tempo al quartiere, proponendo attività creative e di supporto per i più anziani, di raccolta fondi e di ascolto per gli abitanti, o anche solo di accoglienza per chi capitava davanti alla sua porta.
In vent’anni, tra l’arrivo di Silvana e quello di Ulla, forse le cose erano cambiate, ma la caratteristica in comune che traspare dai loro racconti sul quartiere del passato è quella di un luogo fatto di relazioni, dove la rete sociale sopperiva, o provava a sopperire, all’assenza di servizi. Una comunità che si ritrovava nelle chiese, negli oratori e nei bar, e che conosceva il nome del proprio vicino di casa.
È con questa parola in mente, comunità, che le loro voci si sono incrinate e il racconto, roseo o avventuroso del passato, si è trasformato in una descrizione rassegnata del presente, dove le relazioni sembrano sparite, la solidarietà è sempre più difficile da applicare e c’è una separazione netta tra le etnie che compongono il quartiere che, non accompagnate in percorsi di integrazione adeguata, si sono ritrovate in conflitto su risorse scarse.
Una difficoltà di relazioni tra persone di diversa provenienza, ma anche tra persone di diverse generazioni che si trovano sempre più distanti nella strutturazione dei servizi cittadini sempre più digitale, che esclude chi quegli strumenti non li sa utilizzare. E allora la popolazione anziana rimane isolata e timorosa di un mondo di sempre più difficile comprensione.
La percezione per le nuove generazioni
Ma le nuove generazioni non sono sempre escludenti e anzi, spesso si trovano in mezzo al fuoco incrociato di conflitti e difficoltà di cui non hanno vissuto l’origine e ne vivono di nuove e diverse.
Come Stefano Saad, nato nel 2005 in Egitto e trasferitosi qui nel primo anno di vita, che con delicatezza e abilità, ha saputo descrivere, come fosse un’istantanea, il suo primo ricordo in Giambellino, un letto dove dormivano tutti insieme, genitori e figli, in mezzo alle scatole del trasloco.
Stefano è stato catapultato dall’Egitto nel quartiere in cui Silvana e Ulla sono vissute tanti anni e in cui oggi faticano a riconoscersi, ed è stato investito in pieno dalle dinamiche di gentrificazione, di abbattimento delle case popolari e di discriminazione verso gli stranieri che si stanno verificando in tante aree della città fuori dai bastioni.
Da ragazzino ha cominciato a frequentare i centri di aggregazione del quartiere come la Casetta Verde di via Odazio o il CD Giambellino, il Centro di Aggregazione Giovanile che fa parte della Cooperativa Sociale Comunità Del Giambellino.
Crescendo, ha cominciato poi a contribuire in questi spazi, con tempo ed energia, in attività di volontariato come il dopo scuola, la distribuzione della spesa durante il lockdown e le vacanze con i ragazzi.
Qui ha conosciuto Giacomo Casula, classe 2006, nato in un quartiere nord della città e cresciuto in Giambellino. Anche lui sta assistendo negli ultimi anni al processo di rigenerazione del quartiere che, parallelamente ad aspetti positivi di miglioramento degli arredi urbani e di alcune infrastrutture, è consistito però anche nella deriva gentrificatrice dell’aumento dei prezzi delle case che porterà a un inesorabile spopolamento del quartiere dai vecchi abitanti, meno abbienti.
«La via è già segnata» dice Stefano «le persone povere andranno via e il centro di Milano si allargherà sempre di più, svuotando i quartieri dai veri abitanti».
Un processo di erosione della comunità e inasprimento delle difficoltà economiche che, durante il lockdown e negli anni successivi, «si è accelerato ancora di più, anche nella classe media, e ha reso ancora più difficili i rapporti tra le persone», spiega Giacomo.
Le promesse di miglioramento di servizi e infrastrutture in Giambellino che verranno realizzate con l’arrivo della metro, si porteranno dietro quindi la fine della mixitè culturale e non potranno essere sfruttate e godute da quella popolazione che oggi abita il quartiere.
In questo scenario complesso, anche il rapporto con gli anziani è difficile, un po’ perché, come spiega Stefano, «gli anziani non sono più considerati i saggi della società, come invece avviene nella mia famiglia in Egitto», un po’ perché sono esclusi dalla società digitale dell’informazione e quindi faticano a trovare una modalità di comunicazione con le altre generazioni.
Stefano e Giacomo si spendono per ricreare ogni giorno relazioni di comunità, usano il loro tempo fuori dalla scuola per creare valore e dimostrano un’acuta consapevolezza della loro delicata posizione, ma si trovano ad affrontare sfide aspre.
«La comunità del Giambellino è varia ed è una ricchezza culturale; questo quartiere mi ha dato tanto, ma la gentrificazione e questa spinta capitalistica sono qualcosa di più grande» Giacomo Casula.
Una ricetta per il futuro?
Ma non è tutto perduto. Bisognerebbe ripartire dalle persone, dai centri di aggregazione che fanno incontrare ragazzi provenienti da luoghi ed esperienze diverse, dagli eroi del passato a quelli del presente, che tessono ogni giorno relazioni, aprendo la porta delle loro case e offrendo un caffè ai vicini, come Silvana e Ulla, o frequentando i luoghi del quartiere e diffondendo consapevolezza politica nelle strade, come Stefano e Giacomo.
Perché la Milano europea non sia solo in centro e, se ci dobbiamo colorare -come dice Ulla- non si trasformino i quartieri in ghetti da cui si desidera scappare o si rischia di essere mandati via per processi di feroce gentrificazione, ma si ricreino le comunità di mutuo aiuto, dove le difficoltà non siano carico del singolo individuo, ma di una collettività di diverse provenienze, genere, religioni ed età.