Chi non mette in campo rispetto e curiosità nei confronti delle altre generazioni perde opportunità cruciali. Perché oggi vince chi sa integrare le diversità, chi porta l’inclusione nel proprio codice genetico e scavalla i luoghi comuni, magari per scoprire somiglianze sorprendenti con chi non direbbe mai.
Ne parliamo con Laura Quintarelli, co-fondatrice di Fedro Training & Coaching, Master Certified Coach (MCC) e autrice del saggio Managing by Generation (FrancoAngeli).
Dovesse estrapolare un principio di comportamento tra i tanti che propone quando, nelle organizzazioni, lavora perché le generazioni smettano di ignorarsi o, peggio, di guardarsi con sospetto, quale sarebbe?
Tutto parte dalla conoscenza reciproca, che deve liberarsi dei molteplici pregiudizi che le generazioni si rimandano vicendevolmente: “I Gen Z non sanno approfondire”, “I Gen Z vogliono essere pagati, ma non si impegnano”, dicono i luoghi comuni, così come “I Boomer sono vecchi di testa”, “I Boomer sono analfabeti digitali”… Questi giudizi possono anche contenere tratti generazionali in qualche modo plausibili, ma non sono associabili alla singola persona. Il punto è che ogni persona è diversa dall’altra, pur dentro una comune generazione, ed è questa unicità che va riconosciuta.
Peraltro, il fatto di categorizzare le persone per fasce di età non rischia di alimentare proprio gli stereotipi generazionali che si vogliono combattere?
Se ci si riferisce ai programmi condotti nelle aziende, direi di no: quando i programmi sono fatti bene, hanno proprio l’obiettivo di contrastare le generalizzazioni, di aiutare le persone a liberarsi degli stereotipi e abbracciare le differenze, che rappresentano un valore. Peraltro, tratti generazionali non sono rilevabili in tutte le persone e ci sono generazioni che manifestano somiglianze con altre che pure sono lontane nel tempo: è, per esempio, il caso di una fascia della Generazione Zeta che, al pari dei Baby Boomer, riconosce un driver molto forte nel successo sul lavoro e anche un’apertura di spicco nel realizzarsi come imprenditori.
Com’è questa generazione di giovanissimi, vista da vicino?
Le ricerche internazionali mettono a fuoco, tutte, tre tratti precisi che muovono le persone della generazione Zeta nelle dimensioni professionali. Anzitutto l’autenticità, che si traduce nel bisogno di esprimere ciò che si è in contesti autentici, ovvero contesti che dicono ciò che autenticamente avviene. Poi il principio del piacere, che sostituisce come motivazione esistenziale quello del dovere; quindi la flessibilità, che si concretizza nel prediligere soluzioni professionali segnate da modalità e tempi che rispettano la dimensione privata. C’è un altro aspetto, devo dire, che connota questa generazione, ed è la focalizzazione sull’oggi e la gratificazione istantanea, generate certamente dalle preoccupazioni verso un futuro per il quale è difficile provare ottimismo.
Le generazioni sono attraversate da conflitti silenziosi che spesso non vengono esplicitati, ma nel tempo sono usuranti. Nella convivenza quotidiana, a chi tocca la responsabilità ultima di salvare le relazioni?
Siamo abituati a pensare che l’integrazione la deve praticare chi c’è già nei confronti di chi arriva, il che è sbagliato: l’integrazione la devono generare tutti, anche quelli che entrano, anche i più giovani, ricercando un cambiamento di paradigma e uscendo da quel meccanismo di chiusura generazionale, che è diabolico.
Come si affronta, concretamente, la complessità quotidiana generata da relazioni con persone così diverse da sé?
Usando il feedback come strumento di comunicazione costante. Il senso è: io ti comunico come percepisco certi comportamenti tuoi e poi mi apro ad ascoltarti. Essere espliciti e accurati nei feedback, offrendo riscontri continui, costanti, ben argomentati e basati sui fatti è cruciale, perché aiuta a definire le regole del gioco reciproche. Il feedback, attivato in questo modo, finisce per unire le persone. C’è un grande bisogno di cambiare la comunicazione reciproca e di ascoltare i modelli di comunicazione degli altri.
A proposito, i Millennial che stanno via via occupando i vertici stanno cambiando i modelli di leadership?
Si vedrà, non ci sono ricerche a proposito degne di nota. Ma dal mio osservatorio personale, vedo emergere una leadership segnata, più che dalle super competenze tecniche, da capacità meta – penso alla capacità di apprendere, quella di prendere decisioni, di integrare le differenze, per dirne alcune – e orientate alle persone.
Ci sono differenze di genere nel modo in cui i più giovani gestiscono la leadership?
Le differenze di genere sfumano di generazione in generazione per annullarsi nei Millennial e, soprattutto, nella Generazione Zeta, che porta l’inclusione scritta nel proprio codice genetico e tende a neutralizzare tutti gli schemi di genere.
Cosa vede nel futuro?
Vedo problemi per chi non si metterà in discussione. Per chi si chiuderà nella convinzione che i giovani non vogliono fare fatica e che, dunque, bisogna trovare i “giovani giusti”. Anche perché le generazioni stanno sfumando: anche chi appartiene alla Generazione X si è lasciato cambiare dall’apertura al cambiamento e all’inclusione generata da Millennial e Generazione Zeta e porta oggi interessanti somiglianze con loro. Aggiungo che ogni generazione ha sempre guardato con una certa distanza quella che era venuta prima oppure le succedeva, quasi sempre sentendosi migliore. Questa volta una variabile chiamata digital mind sta sbaragliando ogni equilibrio e la velocità con cui avvengono i cambiamenti è impressionante, specie se li si guarda dall’interno di luoghi che fanno fatica a cambiare.