La software house catanese di Domenico Gallo e Manlio Greco ci permette di emulare mech nipponici di anime e manga
Se si pensa ai robottoni che lottano contro il male la mente corre obbligatoriamente al Sol Levante. Sono i giapponesi, infatti, ad aver fatto di mech, esoscheletri intelligenti e affini una loro esclusiva. Per questo potrebbe sfuggire ai più che il gioco appena atterrato sugli store di PlayStation 5, Xbox Series X|S, PlayStation 4, Xbox One, Nintendo Switch e PC arriva sì da un’isola dominata da un vulcano, ma molto più vicina di quanto non si pensi: la Sicilia. Blackwind è infatti un videogame tutto italiano, sviluppato dalla catanese Drakkar Dev di Domenico Gallo e Manlio Greco.
Blackwind è, almeno a colpo d’occhio, un Hades (avete letto la nostra recensione?) immerso in un mondo futuristico: battaglie furibonde, indiavolate, condite da sparatorie infinite, il tutto ripreso dall’alto, da una visuale (quasi sempre) a volo d’uccello. Il team catanese ha aggiunto alla ricetta anche alcune fasi platform con semplici enigmi ambientali da risolvere per procedere, ma il loro è e resta un hack’n’slash brutale e senza troppi fronzoli.
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Come ogni robottone semi-nipponico che si rispetti, anche il nostro, oltre a essere controllato da un ragazzino, può attaccare i nemici con lame degne di samurai e la velocità dei ninja, oppure affidarsi a bocche da fuoco utili a mantenere le distanze di sicurezza. Progredendo col gioco è possibile sbloccare, anche piuttosto in fretta, scudi energetici, nuove combo con l’arma bianca e, ovviamente, ispirandosi a Evangelion, una modalità Berserk che ci renderà combattenti spietati e inafferrabili. C’è pure qualche skin nuova per il nostro robottone, ma niente di che. In compenso, l’albero delle abilità (che avrebbe potuto essere assai più folto) intreccia le proprie radici col back tracking, visto che spesso occorrerà tornare sui propri passi, visitando porzioni di livello già viste, per sbloccare aree un tempo precluse.
Sulle prime, Blackwind diverte. Di più: riesce nella non facile impresa di trasmettere al giocatore, anche attraverso vibrazioni della telecamera, tutta la furia distruttrice e la potenza sovraumana del mezzo che controlla. Allo scopo assolvono anche i particolari degli scenari: ampiamente polverizzabili. Tuttavia, il titolo catanese porta dietro alcuni evidenti difetti che rischiano di limitare il divertimento e che speriamo possano essere corretti con le prossime patch. Anzitutto, mancano le mini-mappe per gli stage all’aperto: abbiamo quelle di hangar, corridoi, laboratori e basi nemiche, mentre per qualche strano motivo non è possibile mappare le location esterne.
Col risultato che, complice la visuale isometrica, molto spesso non si riesca a capire dove stia il ‘corridoietto’ che collega una stanza alla successiva e si gira a vuoto, per le parti già esplorate e liberate. Su Switch, poi, se si gioca in modalità portatile è davvero facile riuscire a cogliere elementi nascosti da particolari dello scenario. Anche il secondo difetto è strettamente connesso alla telecamera, che fa il cavolo che le pare: si avvicina e si allontana all’improvviso, precludendoci intere porzioni degli stage, col risultato che capita di sparare alla cieca, oltre i bordi del televisore, sperando di beccare qualcuno. Ma, non contenti, gli sviluppatori siciliani hanno reso la regia di gioco responsabile di un altro fattaccio: come anticipavamo, qua e là si procede lungo fasi platform. Ecco, saltare con una telecamera che pare ubriaca e che tende a falsare le prospettive (in modo non dissimile dai molti Lego-qualcosa di TTGames, per intenderci) è un inferno e spesso si muore perché non abbiamo capito la posizione della piattaforma di approdo rispetto al mech. C’è comunque un difetto che non c’entra nulla con la visuale: l’audio di gioco. Vi consigliamo di giocare a casse spente.
Come si anticipava, si tratta per lo più di difetti ampiamente e comodamente patchabili. Dove Blackwind delude realmente, semmai, è nel multiplayer locale: per carità , è un’aggiunta accessoria, molti titoli nemmeno lo prevedono, ma se fai un hack’n’slash vecchia scuola e ci metti il multiplayer devi regalare una esperienza simmetrica, così da calare i giocatori in una specie di Streets of Rage dei giorni nostri con tanto di robottoni. Invece nel titolo siciliano, il secondo giocatore può controllare un drone ed essere sostanzialmente di supporto. Troppo poco per non scorgere i limiti di un gameplay che ha i suoi anni sulle spalle, visto che risale agli anni ’90, tende fin troppo facilmente a diventare ripetitivo e non è stato modernizzato con gusto come il già citato Hades.