Da venerdì sera a mezzanotte, Londra lascia il continente. Per un anno poco, ma si cerca l’accordo definitivo su questioni importanti
È finita. Dopo tre anni e sei mesi, o se preferite 1.275 giorni, Brexit è cosa fatta, e porta la firma di Boris Johnson. Venerdì notte alle 24 – le 23 oltre Manica, Londra saluterà l’Unione. Personaggio da parodia, abile paroliere con il gusto per l’esagerazione, e dotato di un rapporto estremamente personale con la verità, il leader conservatore ha prima vinto le elezioni, poi traghettato il paese lontano dal continente.
Indietro non si torna: il withdrawal agreement (cioè l’accordo di ritiro negoziato con Bruxelles e approvato dai parlamenti europeo e britannico) è un trattato internazionale vincolante che non consente ripensamenti.
Cosa cambia, quindi, da sabato mattina? Per undici mesi, cioè fino al 31 dicembre, molto poco. È questa la finestra temporale entro cui le diplomazie dovranno sistemare le questioni spicce, dal commercio alla sicurezza, dalla cooperazione giudiziaria all’assistenza sanitaria. La libertà di movimento continuerà ad applicarsi fino al termine dell’anno. Quanto accadrà dopo, dipenderà dall’esito delle trattative.
Regno Unito dopo Brexit: un nuovo paradiso fiscale?
Le proiezioni degli analisti prevedono una flessione dell’economia, ma non è detto che nel lungo termine il paese non recuperi. A Londra pensano di rivitalizzare il Commonwealth, l’accordo con le ex colonie che fa sì che Elisabetta continui, formalmente, a essere sovrana dell’Australia e del Canada, tra gli altri.
Basterà? Qualcuno favoleggia di creare una Singapore al di là della Manica, in grado di vendere servizi finanziari evoluti senza i “lacci e lacciuoli” imposti dall’Unione Europea. Anche fiscalmente, avere le mani libere consentirebbe di trasformare il paese nell’ennesimo paradiso per i grandi e piccoli evasori internazionali. Non propriamente un atto di buon vicinato, ma tant’è.
“La verità è che le possibilità di no-deal non sono mai state così alte. Non è l’esito più probabile, a dicembre, ma è verosimile” argomentava nei giorni scorsi Carlo Altomonte, professore di Economia dell’Integrazione Europea alla Bocconi, nel corso di un convegno all’ISPI. Le grandi aziende, per non correre rischi, sono corse ai ripari da tempo e hanno spostato i propri quartier generali in Europa, Olanda in testa. Seguono Francia e Germania.
Un paese diviso: Scozia e la questione nordirlandese
La Gran Bretagna, nonostante la propaganda, resta un paese diviso: il sistema elettorale assegna tutto al vincitore, ma la somma algebrica dei voti rende evidente la spaccatura tra Brexiters e Remainers. La Scozia è europeista, l’Inghilterra no, a parte la città stato di Londra: che però, è risaputo, gioca un campionato a sé.
Resta, poi, sul piatto la questione nord irlandese, dove la guerra civile tra cattolici e protestanti fermata dal Good Friday Agreement del 1998 è pronta a riaccendersi. Quando il confine con l’EIRE fu disegnato 100 anni fa i cattolici erano il 35%; oggi si avviano a diventare il 50%, e lo saranno probabilmente nei prossimi cinque anni. Potrebbero, allora, chiedere l’unificazione. Inoltre, l’Ulster è una zona depressa a vocazione prettamente agricola, i cui prodotti i contadini vendono prevalentemente all’Unione Europea. Senza un accordo di libero scambio, e tornando alle regole del WTO, i dazi – che arrivano fino al 90% del valore della merce – affosseranno la debole economia di questo territorio. Le tensioni potrebbero, a quel punto, esplodere.
Inutile azzardare previsioni. La storia di Brexit insegna che, più che sforzarsi di immaginare quello che il Regno Unito potrebbe fare, conviene prendere atto del fatto che, anche in questo paese dalle istituzioni un tempo compassate, le cose possono cambiare da un semestre all’altro. Impensabile, solo dieci anni fa. Ma è la realtà.