Le interviste a Luisa Bixio, vice presidente di IIDEA e CEO di Milestone, e Micaela Romanini, fondatrice di Women in Games Italia. In Italia le professioniste attive nell’industria sono il 23%
Se quasi la metà (44%) dell’utenza gamer in Italia è composta da donne, la situazione non è così equilibrata quando si parla di professioniste del settore. Stando agli ultimi numeri di IIDEA, l’associazione che raggruppa sviluppatori e publisher, la quota femminile nell’industria si ferma al 23% (in Europa al 20). In occasione della presentazione del documento “Costruire un campo da gioco equo”, redatto da Women in Games, non profit fondata a Londra nel 2009, con il supporto della federazione europea Interactive Software Federation of Europe (ISFE), di cui IIDEA è membro, e di InGAME, StartupItalia ha intervistato Luisa Bixio, vice presidente di IIDEA e CEO di Milestone, e Micaela Romanini, Fondatrice di Women in Games Italia, per uno scambio di opinioni sui trend del settore in vista di un futuro che tutti ci auguriamo positivo per un’industria che in Italia vale oltre 2,2 miliardi di euro.
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«Con questo documento – ci racconta Romanini – l’obiettivo è indirizzare lo sviluppo del settore in modo più inclusivo attraverso linee guida e case history». Per rinnovare radicalmente un ambiente ancora a predominanza maschile non basta però l’impegno delle singole aziende: occorre un lavoro a tutto campo, che coinvolga le istituzioni, così come la scuola e le famiglie, spesso confuse da pregiudizi e falsi miti legati al gaming. «Ci sono tempi di sviluppo diversi – interviene Bixio -. Se da una parte sono aumentate le bambine, le ragazze e le donne in termini di giocatori, credo che nell’industria sia tutto un altro film. Ancora oggi, inutile nasconderselo, c’è una forte prevalenza maschile».
“Se si parla di opere d’arte come i videogiochi, la diversità è importante”
Nel caso di Milestone, una delle software house italiane più famose a livello internazionale, la Ceo ci ha riferito che su circa 280 dipendenti il 15% è composto da donne. «Ma sono convinta che questo non dipenda tanto dalla volontà delle aziende. Ci accorgiamo che quando arrivano i curricula di sviluppatrici alla fine le assumiamo tutte, perché sono davvero brave. Ma sono ancora troppo poche». Le ragioni derivano da tanti fattori, a cominciare dalla pesante eredità dell’aver pensato che materie come ingegneria e in generale le STEM non sarebbero adatte alle ragazze.
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Per una volta, il confronto con l’Europa non ci fa sfigurare. «Addirittura negli Stati Uniti – aggiunge la fondatrice di Women in Games Italia – i dati recenti riferiscono di un 15% di donne nell’industria». La ricetta per cambiare sta dunque nell’abbattere falsi miti sulle materie STEM, ma anche nell’assecondare la fruizione consapevole del mezzo videoludico, come fattore abilitante. «Uno studio inglese ha evidenziato un fatto interessante: le ragazze che giocano ai videogiochi triplicano le proprie possibilità di intraprendere una carriera nell’ambito STEM».
“Quando arrivano i curricula delle programmatrici alla fine le assumiamo tutte, perché sono davvero brave. Ma sono ancora troppo poche”
Sul nostro magazine le abbiamo intervistate. Sviluppatrici e imprenditrici che si stanno facendo strada in un mercato in crescita ed estremamente competitivo. Ne citiamo alcune come Arianna Ortelli, Fortuna Imperatore, Elisa Farinetti. Senza dimenticarsi dei profili stranieri come Shirli Ainsworth e Jehanne Rousseau. Insomma, i talenti ci sono e non fanno fatica ad emergere una volta entrati nell’industria. «Quello dei videogiochi è un mondo giovane – precisa Bixio – e proprio in quanto tale assolutamente inclusivo. Non ho mai percepito differenza tra uomini e donne. Si va avanti grazie alle proprie capacità . Se si parla di opere d’arte come i videogiochi, la diversità è importante».
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L’ecosistema gaming ha fatto parecchi passi avanti non soltanto in termini di consapevolezza. Le frange più estremiste (e ci fermiamo qui con gli aggettivi) resistono, ma vengono isolate. Nel corso dell’intervista abbiamo affrontato il caso Gamergate, scoppiato nel 2014. Si tratta di una campagna d’odio scatenata all’epoca contro la sviluppatrice Zoë Quinn, colpevole di aver suggerito trame meno stereotipate e non più adatte soltanto a un pubblico maschile. «Quel fenomeno – rammenta Romanini – è ricordato soprattutto per quanto riguarda le molestie, ma ha fatto emergere un altro tema: il videogioco, secondo alcuni, non poteva parlare di argomenti come la depressione».
Oggi, per fortuna, aumentano in quantità e in qualità i videogiochi che affrontano con coraggio e maturità la salute mentale (citiamo alcuni da noi recensiti come Stilstand, Sally Face e Drowning). «Avere più donne nel team dà enormi vantaggi – conclude Romanini – ma si deve guardare alla diversità nel suo complesso, tenendo conto dell’orientamento sessuale, dell’etnia e perfino del background. Sono i giocatori stessi oggi a essere più consapevoli dei propri diritti e per questo chiedono di essere rappresentati. Sempre più persone non giocano a videogiochi specifici semplicemente perché ritengono non siano rivolti a loro».