Però questa volta i giovani non si accontenteranno di promesse, ma vorranno vedere dati e fatti concreti
Uno sciopero per il futuro. È questa la chiave della novità, soprattutto sociale, del #FridaysForFuture di oggi, venerdì 15 marzo, anche se alla radice c’è l’argomento clima. E se il futuro è l’obiettivo, il detonatore è stato il clima. Ma come si è arrivati alla giornata di sciopero per il clima a distanza di 31 anni dalla prima comunicazione scientifica alla politica? Già perché era il 23 giugno 1988 quando il climatologo della Nasa James Hansen informò il Senato degli Stati Uniti che i cambiamenti climatici erano in atto.
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Da allora di acqua, o meglio di CO2 ne è passata sotto ai ponti e si è passati anche dal Summit di Rio del 1992, al Protocollo di Kyoto del 1997, diventato effettivo nel 2005 ma firmato solo da 84 paesi, fino all’Accordo di Parigi del 2015, passando ancora attraverso l’estenuante, e improduttivo finora, sistema delle Conferenze delle Parti (Cop) arrivate nel 2018 all’edizione numero 24. Il tutto nell’assoluta indifferenza della politica e del mondo industriale, visto che le emissioni sono continuate a salire fino a raggiungere la quota delle 411,75 parti per milione (PPM) nel febbraio 2019. Il record da oltre 800mila anni.
Anzi è dopo l’Accordo di Parigi, con l’elezione di Trump, il negazionismo dell’Australia e il doppio gioco della Cina – come abbiamo documentato nel nostro pezzo sulle nuove centrali a carbone del gigante asiatico – che la “tensione” verso i cambiamenti climatici è diminuita. Pensando forse di aver trovato la facile soluzione “politica” del tirare a campare climatico. Fino ad arrivare all’autunno del 2018, dove a una stanca e tecnica Cop che si è tenuta nella carbonifera Polonia, si è contrapposto il report dell’Ipcc (Il panel delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) più allarmate da sempre. Il documento parla chiaro. Il periodo per tenere a bada i cambiamenti climatici è quello dei prossimi dodici anni e il vero limite non sono 2°C al 2100, ma 1,5°C, che in Italia è stato quasi raggiunto nel 2018. Solo con 82 anni d’anticipo.
E il report dell’Ipcc non tiene conto dei “tipping point”, ossia degli effetti innescati dalla prima fase dei cambiamenti climatici – quella degli ultimi trenta anni – come lo scioglimento del permafrost artico con una forte emissione di metano, potente gas serra, o l’acidificazione degli oceani, che ne diminuisce il potere d’assorbimento della CO2. Tutti fenomeni che potrebbero accelerare, parecchio, il riscaldamento globale.
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L’inerzia delle Cop, l’opposizione della politica internazionale ad azioni incisive, il report dell’Ipcc sono stati alla base dell’azione, individuale e nella prima fase solitaria, di Greta Thunberg, la giovane studentessa svedese che per prima, dal 20 agosto 2018, ogni venerdì, ha cominciato a scioperare per il clima, spazzando via incertezze e lentezze nel proprio discorso alla Cop 24 della Polonia, alla quale è stata invitata dopo i primi #FridaysForFuture.
Come è nato il #FridaysForFuture
«Nel 2078 festeggerò il mio settantacinquesimo compleanno. Se avrò dei bambini, probabilmente, un giorno mi faranno domande su di voi. Forse mi chiederanno come mai non avete fatto niente quando era ancora il tempo di agire. Voi dite di amare i vostri figli sopra ogni cosa, ma state rubando loro il futuro davanti agli occhi. – ha detto Greta Thunberg, nel suo discorso a Cop 24 – La nostra biosfera viene sacrificata per far sì che le persone ricche in Paesi come il mio possano vivere nel lusso.
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Molti soffrono per garantire a pochi di vivere nel lusso», continuando con un affondo verso una certa maniera di intendere la green economy, ossia come stampella all’economia tradizionale: «Voi parlate solo di una crescita senza fine in riferimento alla green economy, perché avete paura di diventare impopolari». Sono stati quattro minuti, quelli del suo intervento, che hanno proiettato i ventimila partecipanti a Cop 24 in un futuro distopico, partendo dalle differenze di classe di oggi e facendo sciogliere come neve al Sole i facili alibi pseudo ecologici, come la green economy edulcorata, che hanno imperversato negli ultimi anni.
Il tutto sottolineando la battuta al vetriolo contenuta nell’articolo sul Guardian di George Monbiot, uno dei massimi esperti d’ecologia, che il 6 settembre 2018 titolava: «Non salveremo la Terra con un migliore tipo di tazza di caffè usa e getta».
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Nel frattempo l’onda mediatica della protesta #FridaysForFuture montava e di conseguenza anche la mobilitazione. Al punto che Greta Thunberg è stata inviata al summit dell’economia mondiale di Davos, dove il 25 gennaio 2019 si rivolgeva alla platea dicendo con una semplicità disarmante: «La nostra casa è in fiamme. Sono qui per dirvi che la nostra casa è in fiamme». Servendo così chi per anni ha accusato giornalisti e militanti ambientali di “catastrofismo” circa i cambiamenti climatici.
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Chi sono i nemici del #FridaysForFuture
E le resistenze da parte della politica ci sono state. In Australia il Governo ha “sconsigliato” agli studenti le manifestazioni, minacciando sanzioni disciplinari, mentre Donald Trump ha risposto per via indiretta annunciando indagini scientifiche sulla validità delle ricerche scientifiche sul clima. Dall’altro lato la questione climatica è stata ripresa dalle opposizioni a partire dalla deputata democratica di fresca nomina Alexandria Ocasio Cortez che ha lanciato un Green New Deal, basato sulla tassazione delle grandi ricchezze per finanziare la lotta ai cambiamenti climatici, per finire al nostro Presidente della Repubblica che ha citato Greta Thunberg in un proprio discorso sull’ambiente.
Le iniziative mondiali del #FridaysForFuture di oggi sono in totale (alle ore 16:49 del 14 marzo 2019) 727 tra le quali spicca quella degli Stati Uniti, dove i giovani si sono dati appuntamento a Washington davanti a Capitol Hill in aperta sfida al Presidente Donald Trump. Un’adesione significativa, invece, arriva dalla Confederazione europea dei sindacati che appenderà sulla casa internazionale delle Trade Union di Bruxelles, uno striscione con la scritta «No jobs on a dead planet – workers support clima action (Non ci sono posti di lavoro su un Pianeta morto – i lavoratori sostengono le azioni per il clima». E nel frattempo arriva la proposta per il premio Nobel della pace, a Greta Thunberg, da parte di tre parlamentari norvegesi, ossia da una nazione che è la seconda per Pil procapite al Mondo ed è la quattordicesima per produzione di petrolio.
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Ora le domande da farsi ora sono due. La prima è se questa del #FridaysForFuture è una nuova fase di lotta e presa di coscienza circa il clima, il modello di sviluppo e le ingiustizie sociali. Questioni che devono essere risolte per combattere con efficacia i cambiamenti climatici. Mentre la seconda è quanto di questa mobilitazione sarà recepito dalla politica in termini concreti e non di facciata. E in Europa nei prossimi due mesi potremmo verificare entrambe le cose.
Basterà vedere nei fatti come saranno recepite le proteste del #FridaysForFuture, sotto al profilo delle azioni concrete e nei programmi politici delle prossime elezioni europee. Di solito nei programmi elettorali qualche accenno al clima lo si trova, di carattere generico, ipotetico e magari condendo il tutto con i condizionali. Ma l’impressione è che ora tutto ciò non basti. La generazione che sciopera oggi, infatti, è la più colta della storia dell’umanità ed è probabile che sappia far di calcolo.
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Per cui all’affermazione di Greta Thunberg «La nostra casa è in fiamme», questa volta non sarà sufficiente rispondere «La spegneremo, vedrai, non ti preoccupare». I giovani vorranno sapere con quanti pompieri, autopompe e idranti si spegnerà l’incendio. Vorranno, quindi, leggere dati concreti e non dichiarazioni d’intenti nei programmi politici del prossimo futuro.